Recensione. “Berlinguer – La grande ambizione”, una lezione di storia alla Festa del Cinema
Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è invece indissolubile dal bene collettivo.
Antonio Gramsci
Così inizia il film d’apertura della XIX Festa del Cinema di Roma: “Berlinguer – La grande ambizione” di Andrea Segre, con protagonista Elio Germano, che uscirà al cinema il 31 ottobre.
Il primo film in concorso alla Festa del Cinema ha tutte le caratteristiche di un biopic ma in realtà si concentra solo su un piccolo grande spaccato della vita di Berlinguer, che lo vede tra i protagonisti della scena politica italiana tra il 1973 e il 1978.
Sono gli anni in cui quello italiano è il più grande Partito Comunista dell’Occidente: gli anni delle piazze gremite e colorate di rosso, gli anni delle assemblee pubbliche, gli anni dei Compagni e delle occupazioni, gli anni in cui “Eurocomunismo” e “Compromesso storico” campeggiavano sulle prime pagine dei quotidiani e riecheggiavano tra radio e televisore.
L’informazione, insieme ad altri dati storici, viene data da Andrea Segre all’inizio del film: parole bianche su uno sfondo nero, immagini di repertorio che si alternano alla ricostruzione cinematografica, nomi e qualifiche che compaiono come etichette a fianco ai personaggi, sottolineano l’aspetto didascalico di “Berlinguer – La grande ambizione“, che talvolta sembra quasi un docufilm.
La Storia – quella con la S maiuscola – regna sovrana nell’opera di Andrea Segre, che ripercorre a tappe gli anni in cui il sogno di un governo di unità nazionale sembrava non più tanto impossibile. Partendo dalle violente scene del golpe in Cile nel 1973, passando per il viaggio in Bulgaria – dove Berlinguer sopravvisse ad un attentato, l’allontanamento dall’Urss, gli articoli su “Rinascita” e i titoli inequivocabili del “New York Times“, le preoccupazioni degli Usa. E ancora le manifestazioni, le assemblee, gli incontri istituzionali e quelli con gli operai, ma anche il referendum per l’abrogazione della legge sul divorzio, le elezioni del 1975, fino agli incontri segreti con Aldo Moro – messi in scena per la prima volta nella storia del cinema -, l’omicidio del Presidente della Dc. In conclusione, le immagini di repertorio dei funerali di Enrico Berlinguer, cui parteciparono oltre un milione e mezzo di persone.
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“Berlinguer – La grande ambizione” è un film fatto soprattutto di discorsi e dialoghi. In un film in cui si presta molta attenzione al dettaglio – dall’arredo dell’appartamento all’utilizzo della penna Bic -, i veri protagonisti sono i pensieri e le parole del Segretario del Pci. Merito di un accuratissimo lavoro di recupero dei testi da parte di Andrea Segre e Marco Pettenello che hanno scritto la sceneggiatura partendo da letture, interviste, appunti, articoli, trascrizioni e documenti custoditi nell’Istituto Gramsci.
Il film si apre con la preparazione di un discorso sugli “avvenimenti cileni” e si avvia alla conclusione con una lettera alla moglie Letizia: nel mezzo Berlinguer prende appunti, si racconta in prima persona, commenta gli eventi, scrive articoli e soprattutto comunica con la folla. Il Segretario messo in scena da Germano è un uomo che parla molto, che racconta se stesso e la Storia in prima persona. Ma è altrettanto un uomo predisposto all’ascolto, all’incontro e al confronto – aspetto sottolineato dalle molte scene in cui dialoghi diventano “a tre” per la presenza di un interprete che prolunga i tempi del normale andamento di una conversazione.
Elio Germano non delude le aspettative mettendo in scena un ritratto che non punta ad essere mimetico – non fosse per l’accento sardo imitato dall’attore – ma molto convincente. Afferma Germano in conferenza stampa:
“Abbiamo scelto di non caratterizzare troppo esteriormente tutti i personaggi, ma di restituire qualche dettaglio, approfondire le questioni di cui erano portatori tutti quegli intellettuali che sedevano ai tavoli della direzione, di cui Berlinguer era il Segretario. Abbiamo avuto una profonda attenzione per la ricostruzione non esteriore, con un atteggiamento di profondo rispetto e di indagine – quasi da storici -, con un’attenzione a mettere in scena senza forzare le cose da una parte o dall’altra.
Io credo molto in quello che è il linguaggio involontario, la comunicazione inconsapevole dei nostri corpi: in questo caso, il corpo di Berlinguer, la sua prossemica involontaria raccontava un senso di inadeguatezza e di fatica, di responsabilità e di peso, una mancanza di attenzione verso l’esteriorità – con questi capelli che vanno da tutte le parti.”
Andrea Segre e Elio Germano ci mostrano un Enrico (che viene chiamato per nome solo dopo una decina di minuti dall’inizio del film) irrequieto nei movimenti, vestito con giacche troppo larghe, abitudinario nei rituali con cui iniziano e finiscono le sue giornate: esercizi di ginnastica in camera e un bicchiere di latte. Il ritratto di un politico pieno di umiltà e di riserbo, di un uomo incrollabile, schivo, intelligente e amatissimo dalla gente comune.
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Il protagonista del film risulta però un personaggio con cui è difficile empatizzare. Anche nelle scene familiari, che dovrebbero restituire il ritratto dell’Enrico-uomo, c’è fin troppa compostezza e poco spazio per dare allo spettatore la possibilità di entrare nelle corde del personaggio, infilarsi nel suo punto di vista, comprenderlo e affiancarsi ad esso.
Sembra non esserci la possibilità di commuoversi – nel senso di cŭm movēre (muovere con, emozionarsi insieme) neanche nelle scene con la moglie Letizia (che fa sorridere amaramente quando dice che lei in realtà sperava di sposare un grigio funzionario e non un uomo così impegnato e impegnativo) e i figli Maria, Bianca, Marco e la piccola Laura. D’altronde in ogni pic-nic, momento conviviale o di gioco si affrontano temi “da grandi”, dall’equità salariale all’uso della violenza nelle manifestazioni studentesche, dagli slogan politici a “L’accumulazione del capitale” di Rosa Luxemburg.
Anche scene dal forte potenziale patetico e poetico non vengono approfondite permettendo allo spettatore di comprendere e assorbire il significato di ciò che ha appena ascoltato. In primis la scena in cui Enrico rivela alla figlia che quando aveva solo 14 anni ha perso la madre, da molto malata, a cui “portava un bicchiere di latte come medicina“. Pochi secondi in cui, se non si presta attenzione, non si fa in tempo ad intuire che l’abitudine di bere un bicchiere di latte alla mattina e alla sera, è in realtà il piccolo rituale di un orfano cresciuto da solo, che beve sempre quel latte somministrato alla mamma morente sognando di riuscire a guarirla.
In secundis, quando il caso Moro divide la stampa e l’opinione popolare e Berlinguer spiega ai suoi figli di credere nel sacrificio dell’uno per la collettività. Insieme alla moglie chiede espressamente ai ragazzi in non chiedere una negoziazione ai rapitori, in caso venisse sequestrato anche lui, di non cedere “neanche quando sarò io a chiedervelo“. Una scena dal forte potenziale, che però rimane in sospeso, accennata. Così come accennata è la reazione al ritrovamento del cadavere di Moro in Via Caetani, poco più sotto della propria finestra, prima di ritornare al “solito” contegno.
Più che un biopic (una porzione di cinque anni), “Berlinguer – La grande ambizione” sembra una lezione di storia. Rispettando a pieno l’obiettivo di Andrea Segre: realizzare finalmente un film che mettesse in scena un’importante parentesi della storia politica (e non solo) del nostro Paese. Non un omaggio o una celebrazione, ma una ricostruzione quanto più fedele e pedagogica.
La conferenza stampa
Alla proiezione in anteprima di “Berlinguer – La grande ambizione” alla Festa del Cinema di Roma è seguita la conferenza stampa.
Erano presenti il regista e sceneggiatore Andrea Segre, lo sceneggiatore Marco Pettenello, i produttori e buona parte del cast: Elio Germano (Enrico Berlinguer), Paolo Pierobon (Giulio Andreotti), Roberto Citran (Aldo Moro), Elena Radonicich (Letizia Laurenti), Paolo Calabresi (Ugo Pecchioli), Giorgio Tirabassi (Alberto Menichelli), Andrea Pennacchi (Luciano Barca), Francesco Acquaroli (Pietro Ingrao), Stefano Abbati (Umberto Terracini), Luca Lazzareschi (Alessandro Natta), Pierluigi Corallo (Antonio Tatò), Lucio Patané (Gianni Cervetti).
Ne riportiamo un estratto.
Come è nato questo progetto? Quando ha capito che questo era proprio il progetto da portare avanti, il film da realizzare?
Andrea Segre: Forse lo avevo in testa da molto prima, però mi è venuto veramente in mente quando sfogliato un libro di Piero Ruzzante, l’onorevole del padovano, che raccontava gli ultimi giorni di Berlinguer. Effettivamente già prima pensavo fosse incredibile che il cinema italiano non avesse ancora raccontato non solo Berlinguer ma il popolo, quel pezzo d’Italia, quell’”un terzo di italiani” che hanno vissuto intorno e dentro all’esperienza del Partito Comunista Italiano. Subito abbiamo iniziato a riflettere su quale fosse il momento più importante della storia di Berlinguer, di quel popolo, perché non volevamo fare un biopic generale: ci è sembrato che gli anni dal ‘73 al ‘78 – e in particolare gli anni centrali tra ’75 e il ‘76 – fossero il momento più importante non soltanto per quell’esperienza, ma per il ruolo che l’Italia ha avuto in quegli anni di tensione, in un mondo diviso in due. Quello italiano era il più grande Partito Comunista in Occidente: questo già di per sé costituisce un problema per l’Occidente e per il mondo comune.
Come ha lavorato sul repertorio? Ci sono innesti di finzione tra le vecchie immagini?
Andrea Segre: Unire repertorio e messa in scena è stata sin da subito il mio “pallino”, pur consapevole di tutti i rischi che questa sfida comportava: rischiare di rompere il flusso della messinscena, di rompere il confine tra, diciamo, verità e finzione. Non ci sono assolutamente elementi di finzione tra le immagini di repertorio: è tutto frutto del lavoro degli archivisti che ringrazio. Ero consapevole che lì si giocava una sfida creativa e artistica importante, ma mi piace molto questo dialogo e ci siamo fatti guidare dal film “Milk” di Gus Van Sant. Così il film è sia didascalico – nel senso che racconta qualcosa – sia poetico, subliminale, come nel passaggio della canzone “Eppure soffia” di Bertoli.
Qual è stata la genesi della sceneggiatura?
Marco Pettenello, sceneggiatore: Mi ricordo che le prime pagine che avevo scritto cominciavano con “la prima volta che abbiamo visto, da bambini, un adulto piangere è stato quando è morto Berlinguer”. È quello che è successo a me: mi ricordo precisamente che in quel momento avevo 11 anni e ho visto per la prima volta i miei genitori piangere, mentre ero abituato all’idea che a piangere fossero i bambini, non gli adulti. Abbiamo cominciato leggendo molti libri e biografie, poi abbiamo intervistato una quantità sconfinata di persone, forse una cinquantina: di sicuro i figli, ma anche parenti più lontani, quelli della scorta, tutti quelli del Partito della sua generazione ancora in vita. C’erano Tortorella, Rubbi, Cervetti e Alfonsina Rinaldi – la giovane ragazza che si vede a Roma – e Sposetti, il tesoriere che deve cercare di non usare i soldi sovietici. E poi le generazioni più giovani che lo avevano conosciuto: D’Alema, Veltroni, Bassolino, ecc. In tutte queste interviste c’era sempre il momento in cui qualcuno si commuoveva perché evidentemente Berlinguer era una figura veramente amata. Questo drammaturgicamente può essere un problema: avere un personaggio che non ha dei difetti. Abbiamo parlato tutti per decine di ore con un sacco di gente e nessuno che ci ha mai detto “una volta Berlinguer mi ha fatto inc**zare” (ride, ndr).
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Insomma incrociavamo lunghe letture con interviste e poi siamo entrati all’Istituto Gramsci, dove sono dattiloscritte tutte le riunioni della direzione, proprio tutte quelle che ci siano mai state nel Partito Comunista catalogate per data. Abbiamo letto anche tutti gli appunti di Berlinguer presi con la penna e siamo arrivati a un livello di conoscenza per cui noi ne sapevamo di più di quelli che intervistavamo, che spesso abbiamo corretto. Avremmo scritto un film di 12 ore se ci fosse stato concesso (anche se le prime stesure si avvicinavano molto!): avevamo come un enorme pezzo di tronco di legno, da cui tagliare un po’ alla volta tutto quello che non serve per fare la nostra sculturetta. Tutto questo procedimento è durato un paio d’anni, forse di più.
Un sottotitolo alternativo potrebbe essere “La grande illusione”, anziché “La grande ambizione”?
Andrea Segre: “La grande illusione” è una possibile interpretazione dell’ambizione: l’illusione fa parte dell’ambizione, quella speranza di arrivare all’impossibile nonostante tutti dicano di fare il contrario.
Elio Germano: In ogni caso, rimane la parola “grande” ad indicare quello che volevamo raccontare. Quel “grande” significa “non solo mio ma di tutti, non soltanto una cosa a cui voglio arrivare io ma a cui vogliamo arrivare collettivamente, insieme”.
Come mai avete voluto mostrare come Moro non fosse l’unico artefice del compromesso storico, affidando questo ruolo a Berlinguer?
Andrea Segre: Non direi proprio l’artefice. Sicuramente la definizione di “compromesso storico” nasce nel grande articolo di Berlinguer dell’ottobre 1970. L’idea di rendere possibile l’accesso al governo del Pci, in quanto forza popolare di grandissimo consenso democratico, nasce durante i giorni del colpo di stato. Nel film, Aldo Moro ascolta quello che Berlinguer propone, ma non in modo passivo: soprattutto non è affatto passiva la sua scelta di non incontrare Berlinguer fino al 1978. Moro guida questo avvicinamento attraverso una gestione della distanza, come un vero stratega politico. Abbiamo messo in scena quei due incontri privati tra Moro e Berlinguer – che non erano mai stati raccontati nel cinema -, che avvengono poche settimane prima del sequestro. Moro dice “so di averla fatta aspettare molto, la ringrazio per la pazienza”, mostrando come tutto fosse dovuto ad una pensata scelta.
Cosa avete amato di Berlinguer come uomo e come politico?
Elio Germano: Oggi si fa un gran parlare di leaderismo, del fatto che “manca un leader come lui”. Ma siamo sicuri che la risposta sia nel leader? Perché innanzitutto Berlinguer era un Segretario: questa è una differenza semantica molto importante, perché prevede un discorso in senso opposto, predisposto all’ascolto. A chiunque abbiamo chiesto di lui, ci raccontava il suo inquietante silenzio: era una persona che faceva parlare molto gli altri, ascoltava e desumeva, facendo anche una fatica – che si vede anche dal suo corpo – quasi cristica, nel mettersi a disposizione, nel portare il peso dell’essere quello che tira le fila. Aveva un grande senso di responsabilità verso le persone di cui era rappresentante: ecco un altro termine che la politica ha dimenticato.
Il trailer
(Fonte foto: Festa del Cinema di Roma)