Quando il doo wop scatenava i teenager americani: storia di un ballo che ha reso immortali gli anni ’50
Ma ce lo ricordiamo il doo wop? Derivato dal rhytm and blues e fortemente teso verso il rock and roll, anche se meno aggressivo, il doo wop ha segnato la storia della musica made in USA, ritagliandosi uno spazio ben definito all’interno dei frenetici anni Cinquanta.
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Nella seconda metà dei magici fifties, il doo wop rende protagonista la voce, e gioca con il “classico” ritmo sincopato grazie all’uso particolare della voce solista e dei cori. Tre, quattro, cinque voci che accompagnano quella principale e diventano strumenti a tutti gli effetti, rendendo lo stile a cappella qualcosa di non più relegato ai soli cori da chiesa – anche se era da lì che, probabilmente, i ragazzi avevano acquisito i primi rudimenti della tecnica di armonia vocale.
Per i giovani era il modo ideale di mettere in piedi una band; perché portarsi dietro, e soprattutto comprare, degli strumenti musicali quando si potevano imitare con la voce? Ovviamente, nei più grandi successi ed album, gli strumenti sono presenti ma la grande abilità del doo wop sta proprio nel rendere la base musicale un accompagnamento della voce, messa in primo piano rispetto a tutto il resto. La creatività dei ragazzi americani portò alla reinterpretazione dei brani più celebri dei gruppi vocali degli anni Quaranta, sostituendo a chitarra, basso, e batteria dei suoni onomatopeici, sillabe prive senso che semplicemente imitavano il suono degli strumenti.
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In una società che ancora si nasconde(va) dietro ad una divisione bianco/nero, il doo-wop non viene da subito “istituzionalizzato” – come succede da sempre con ogni nuovo genere – ma grazie ai suoi ritmi allegri e ai testi romantici, divenne presto il simbolo dell’adolescenza a cavallo degli anni ‘50 e ‘60, regalandoci band indimenticabili come The Moonglows, The Flamingos, e The Platters.
Sono tantissimi i brani doo wop che continuiamo ad ascoltare, sia nella loro versione originale che in cover sempre azzeccatissime: pensiamo a Since I Don’t Have You dei Guns N’Roses, cover dell’omonimo brano del ‘58 dei The Skyliners, o anche all’italianissimo Adriano Celentano che con Fumo negli Occhi ci riporta la dolce Smoke In Your Eyes dei The Platters, 1960.
Queste canzoni sono tra i simboli di una piccola epoca a parte che, seppur stretta tra i due colossi dello swing e del rock and roll, viene costantemente rievocata sia da Hollywood (un film su tutti è American Graffiti, 1973) che dal mondo della tv, con un Homer Simpson performer nei Re Acuti che – nonostante il dichiarato omaggio storico ai Beatles – musicalmente non possono che rimandare al filone dei gruppi vocali anni ‘80, un continuum dello stesso doo wop.
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Il doo wop sembra quindi nato lentamente e senza sensazionalismi, stando un po’ alle spalle di quello che già c’era e la sua storia si sfuma e ramifica arrivando dappertutto, mai scomparendo definitivamente e trovando sempre un modo per sbucare fuori, a ricordarci ancora una volta come una manciata di anni possano irrimediabilmente cambiare la storia della musica.
Marina Colaiuda