Coronavirus: addio a Germano Celant, critico d’arte e massimo esponente della contemporaneità italiana
Germano Celant, voce seguitissima della critica internazionale e tra i maggiori protagonisti dell’arte contemporanea italiana e del suo rinnovamento, è morto il 29 aprile scorso all’età di 80 anni a causa del Covid-19. Era da circa due mesi ricoverato in terapia intensiva presso l’ospedale San Raffaele di Milano. Ancora attivissimo, stava curando per Michelangelo Pistoletto un catalogo ragionato della sua opera. Aveva manifestato i primi sintomi di ritorno in Europa dagli Stati Uniti, dove era stato per l’Armory Show. Ricoverato, racconta l’amico Pistoletto, era stato a lungo in rianimazione. Poi, come è successo a tanti, quando sembrava che si fosse ripreso sono arrivate complicazioni dovute anche al diabete.
Celant è nato a Genova nel 1940 da una famiglia di origini modeste, un padre impiegato in una ditta di import-export e madre casalinga. Da giovanissimo iniziò a frequentare il vivace ambiente culturale che si stava sviluppando in quegli anni nella città ligure. Conobbe il gruppo dei cantautori, Gino Paoli, Umberto Bindi e Luigi Tenco e frequentò lo stesso liceo di Fabrizio De Andrè. Laureatosi in Lettere contro la volontà del padre che l’avrebbe voluto ingegnere, nella metà degli anni ’60, iniziò a scrivere per riviste di cultura, nel 1964 lavorò alla progettazione di un libro sul design della Olivetti e, viaggiando tra Milano e Torino, conobbe Arturo Schwarz, Gian Enzo Sperone, il gruppo di artisti che sarebbe confluito nell’Arte Povera ed ebbe occasione di vedere la mostra di Andy Warhol, con Leo Castelli e Ileana Sonnabend tra gli invitati.
In quasi sessant’anni di carriera, è stato autore di oltre 50 pubblicazioni, tra cataloghi, approfondimenti sul lavoro di singoli artisti o scritti teorici, nonché collaboratore di note riviste fra le quali L’Espresso con la rubrica Arte. «Autorevole e istrionico, sempre vestito di nero, una grande chioma argentea ad incorniciare il volto fino all’ultimo giovanile, i giubbotti di pelle che ne tradivano l’amore per il rock e per la cultura americana, Celant in realtà rifiutava la definizione di padre dell’arte povera».
“Non ho inventato niente – spiegava in una intervista del 2017 ad Antonio Gnoli di Repubblica- arte povera è una espressione così ampia da non significare nulla. Non definisce un linguaggio pittorico, ma un’attitudine, la possibilità di usare tutto quello che hai in natura e nel mondo animale. Non c’è una definizione iconografica di arte povera”.
Il critico è noto, appunto, come fondatore, nel 1967, dell’Arte Povera, movimento costituito attorno ad artisti del calibro di Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Giulio Paolini, Pino Pascali, Mario Merz e Luciano Fabro, e basato, attraverso l’utilizzo di materiali poveri, organici e deperibili, privi di valore intrinseco, sulla riappropriazione del rapporto Uomo-Natura, il recupero dell’immanenza dell’azione, dell’archetipo e dell’importanza del gesto artistico, in opposizione all’imperante cultura dei consumi e alla mercificazione dell’arte che stava prendendo piede quando si affermò. Una delle ultime neoavanguardie italiane, iniziata con una prima mostra alla Galleria La Bertesca di Genova e in grado poi di superare i confini nazionali per finire al MoMA di New York.
Tra gli atti fondativi del movimento e del rinnovamento dell’arte italiana ricordiamo, nel 1968, la mostra Arte Povera più azioni povere, nell’ambito della Rassegna Internazionale di Pittura agli Arsenali di Amalfi, organizzata da Marcello Rumma e recentemente ricordata in una mostra al Madre di Napoli, e il convegno successivo, durante il quale intervennero anche critici come, tra gli altri, Achille Bonito Oliva, Gillo Dorfles, Filiberto Menna, Angelo Trimarco. Successivamente Celant precisò la direzione teorica del gruppo, attraverso scritti, come Conceptual Art, Arte Povera, Land Art del 1970.
Celant ha curato mostre in tutto il mondo, dal 1977 al Guggenheim di New York di cui è stato a lungo senior curator of Twentieth-Century Art (e dove ha organizzato, nel 1994, l’importante mostra Italian Metamorphosis 1943-1968, nel tentativo di avvicinare l’arte italiana alla cultura americana), al Centre Pompidou di Parigi (1981), ha lavorato poi per la Royal Academy of arts di Londra (1989), per Palazzo Grassi a Venezia (1989).
È stato direttore della prima Biennale di Arte e Moda (1996) a Firenze e curatore della Biennale di Venezia (1997) con l’esposizione di Futuro, Presente, Passato, alla quale hanno partecipato 67 artisti internazionali, tra i più in vista. Di nuovo, nel 2001, è stato commissario del Padiglione Brasiliano alla 49ma Biennale, nel 2004 è supervisore artistico della programmazione dei cento eventi culturali di Genova 2004, Capitale Europea della Cultura. Dal 2005 è curatore della Fondazione Aldo Rossi a Milano e, dal 2008, della Fondazione Vedova a Venezia.
Nel 2004 realizza a Genova la grande mostra Arti & Architettura. Nel 2013 a Ca’ Corner della Regina, sul Canal Grande, aveva riallestito When Attitudes Become Form, una mostra di Harald Szeemann del 1969, che aveva segnato un prima e un dopo nel panorama del secondo Novecento. In occasione di Expo 2015, ha curato la mostra Art & Food alla Triennale di Milano. Dal 2015 aveva assunto la direzione artistica di Fondazione Prada a Milano, una carica prestigiosa che lo porta ad organizzare mostre con personaggi importantissimi dell’arte, ma anche del cinema, dell’architettura e del mondo accademico.
Nel 2019, in concomitanza con l’apertura della Biennale di Venezia, presso il Palazzo Ca’ Corner della Regina, aveva curato la grande retrospettiva in omaggio all’artista, amico e compagno di viaggio Jannis Kounellis, scomparso nel 2017. L’ultima mostra da lui curata è stata Richard Artschwager, la prima grande antologica europea dedicata allo scultore americano, realizzata grazie alla collaborazione di alcune tra le più prestigiose gallerie internazionali, in programma da ottobre 2019 a febbraio 2020 al Mart di Rovereto e ospitata oggi al Guggenheim di Bilbao.
A poche ore dalla notizia della morte, è giunta la voce di Fondazione Prada, che lo saluta con profondo dolore. Anche da Firenze arriva il rammarico per la scomparsa del grande critico d’arte, a ricordarlo, è Tommaso Sacchi, Assessore alla Cultura della città. A Firenze Celant era legato, oltre che per le già citate mostre, anche per la vicinanza alle sperimentazioni di Art/tapes/22 e per le collaborazioni con Centro Di.
All’ultimo commiato si uniscono anche Sergio Risaliti, direttore artistico del Museo Novecento, Patrizia Asproni, Presidente di ConfCultura e di Fondazione Museo Marino Marini di Firenze, e infine, il ministro Dario Franceschini: “Oggi il mondo della cultura e della creatività piange la scomparsa di un suo altro grande esponente. Germano Celant, critico d’arte e curatore cui si deve una delle avanguardie creative italiane più feconde del Novecento, lascia un’Italia impoverita del suo genio e del suo talento”.