Recensione. “Quell’odore di resina”, il nuovo libro di Michela Zanarella
Tradotta in più di dieci lingue, Michela Zanarella, autrice già conosciuta in precedenti interviste ospitate da The Walk of Fame Magazine, si lancia in un progetto del tutto nuovo per la sua carriera: la pubblicazione di un romanzo.
Edito da Castelvecchi, “Quell’odore di resina” si potrebbe presentare al pubblico come un romanzo introspettivo e di formazione. Tali affermazioni sono dettate da elementi del tutto fondati che trovano la loro concretizzazione nel racconto di episodi di infanzia e di vita in generale, per non parlare dell’approccio femminile verso il mondo e viceversa. Inoltre, ad avvalorare la tesi vi è l’autrice stessa che in un’intervista conferma di aver inserimento molto della sua vita nella storia.
Il romanzo inizia con una fuga. Interessante come l’autrice abbia già voluto fornire un punto di movimento al testo. La protagonista, Fabiola, racconta se stessa, la sua esistenza, le sue paure, i suoi soprusi e la sua esperienza di lavoro in un mattatoio.
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Il luogo di lavoro potrebbe rappresentare una chiave di lettura. Se si pensa ad un mattatoio, in effetti, l’immagine che balza alla mente è quella della morte. Una morte violenta, cruda, fredda. Proprio come descritto dalla, a volte criticata, copertina. Quella immagine, invece, specchia pienamente i sacrifici e le rinunce della giovane donna. Fabiola, infatti, ha accettato quel lavoro al macello quando ormai la speranza di costruire una carriera brillante e felice era svanita. Ha deciso di non continuare gli studi per non gravare sulle tasche della sua famiglia, già provata dal suo percorso fino al diploma. Per questo decide, sfiancato dalla ricerca, di accettare l’impiego.
Dopo poche settimane, però, la ragazza avverte la sensazione di star facendo qualcosa di orribile, di condurre una vita non appagante. Cosa alquanto triste alla sua età. Quindi, abbandona Padova e fugge con Mattia, un nuovo amore conosciuto nei siti dedicati alle poesie. I due si dirigono verso Torvaianica e lì Fabiola ripensa, nei lunghi capitoli, ai passi della sua esistenza e ai dolorosi ricordi di quel lavoro truce, ai distorsioni colleghi caratterizzati da una volgarità scontata.
Si percepisce l’intento dell’autrice di far comprendere quanto l’evasione fisica da una situazione asfissiante non permetta ugualmente alla mente di respirare. I ricordi ci inseguono, si insinuano nei meandri del nostro cervello e lì siedono con sprezzante alterigia.
È importante sottolineare il risvolto narrativo che, agli albori della lettura sembrava prospettarsi come un testo d’amore e, invece, si è rivelato essere un romanzo interiore, sofferente.
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Apprezzabile l’intento della Zanarella di voler descrivere il vuoto provato dai giovani e dalle giovani di oggi nel doversi adeguare ad un mestiere poco gradito pur di avere il pane in tavola. Argomento, questo, trattato con grande senso di realtà e attinenza ai fatti. In questo senso si riesce a percepire lo studio e la ricerca della verità condotto dalla scrittrice.
Fabiola incarna le aspettative e i sogni di molte donne che fantasticano su un cambiamento profondo ma che mai riescono ad intraprendere per innumerevoli ragioni. Quell’odore di resina è un romanzo ricco di dolore, innesca prontamente un meccanismo di empatia tra la protagonista e il lettore. Al tempo stesso, l’ironia e la simpatia giocano un ruolo fondamentale nella fluidità della storia che scorre veloce come se fosse, senza scomodare James Joyce, uno stream of consciousness all’italiana.