[L’intervista] – Melania Giglio fa rivivere Édith Piaf a teatro
Domenica 3 marzo il Teatro Talia di Tagliacozzo ospiterà Melania Giglio con il suo spettacolo “Edith Piaf, l’usignolo non canta più“.
Accompagnata da Martino Duane, sul palco Melania Giglio incarna Édith Piaf dopo che una serie di eventi si sono susseguiti nella vita di questa piccola donna: lutti, incidenti, amori, liti, solitudine, alcol, gioie, successi e canzoni. Tutto si è abbattuto sull’Usignolo come un uragano, l’usignolo non canta più: l’artrite l’ha resa gobba, l’alcol e i medicinali l’hanno resa gonfia e senza capelli, i lutti hanno ferito la sua voglia di vivere.
Ma improvvisamente qualcuno bussa alla sua porta e arriva a profanare questo buio: Bruno Coquatrix, impresario dell’Olympia. Lo spettacolo ripercorre i giorni che precedettero la storica esibizione sul palco dell’Olympia.
Ne abbiamo parlato con Melania Giglio.
L’intervista
“Édith Piaf, l’usignolo non canta più” è un viaggio di racconto e canto: come si struttura lo spettacolo?
Questo spettacolo rappresenta un’artista in estrema difficoltà, nel senso che la Piaf era molto fragile in quel periodo: era debole, aveva subito un lutto molto grave – quello della morte di Marcel Cerdan che era il suo grande amore – e poi aveva proprio delle difficoltà fisiche, un’artrite che le dava moltissimi dolori e problemi. Quindi vediamo un’Édith Piaf non nel suo massimo fulgore.
Quello che mi ha sempre colpito è che, nonostante questo, la Piaf è comunque la Piaf: riesce a trasformare questo momento di difficoltà, dolore e fatica fisica in un grande momento di successo e di bellezza. Perché è stato proprio in quel momento che ha accettato di ritornare a cantare all’Olympia e ha presentato al mondo “Non, je ne regrette rien”, trasformando la difficoltà in successo e di gioia.
Quali sono state le sue fonti? Come si è preparata ad impersonare Édith Piaf?
Intanto ho letto chiaramente tutte le biografie e le autobiografie che potevano essere lette. Musicalmente è stato più facile perché io ho sempre cantato Édith Piaf: l’ho sempre amata ed è stata molto ascoltata dalle donne della mia famiglia. Poi mi sono documentata su quest’ultima fase della sua vita: le canzoni sono state inserite in questo racconto di rinascita, che le ha regalato questi ultimi grandi successi nella fase finale della carriera.
Si è relazionata al film “La Vie en Rose” di Olivier Dahan, “La Môme” (= l’usignolo) in lingua originale?
Naturalmente ho amato molto il film: secondo me è stato un prodotto cinematografico che ha reso assolutamente giustizia al personaggio. Però, anche qui, la fase della vita di Édith che mi ha sempre affascinato di più è stata quest’ultima: non quella dei grandi successi a livello mondiale, ma quella della fragilità fisica. Ho amato soprattutto la parte finale quando lei era rinchiusa in questo appartamento, senza riuscire più a mettersi le scarpe per l’artrite – infatti negli ultimi concerti era in pantofole.
Il suo spettacolo si concentra sul periodo in cui “L’usignolo non cantava più“. Dal punto di vista attoriale, qual è stata la difficoltà che ha riscontrato nell’interpretare la Piaf nel peggior momento della sua vita?
Senz’altro ho dovuto lavorare in un modo molto molto specifico sul corpo, nel senso che appunto non è un ruolo che puoi interpretare facendo te stesso fisicamente. Anche perché io sono molto diversa da lei, quindi ho dovuto fare un grosso lavoro di trucco e parrucco e un lavoro di mimica del corpo, di uso delle mani e dei piedi. Quindi come tocca gli oggetti, una che ha l’artrite reumatoide avanzata? Come cammina, come si muove? Come si siede e come si alza? Come canta? Ho studiato molto i suoi ultimi video e ho cercato di renderle il più possibile giustizia.
Quanto c’è di Melania Giglio in questo spettacolo?
L’aspetto più personale è il fatto che le canzoni sono tutte cantate dal vivo e in tonalità originale – non ho riarrangiato pezzi per questo spettacolo – ma non ho cercato di fare (vocalmente) un’imitazione della Piaf. Se no diventa Tale e Quale Show, diventa un’altra cosa, un processo imitativo che, secondo me, non è interessante. Quindi a parte il testo che ho scritto io, il mio contributo personale è una mia interpretazione delle canzoni con il mio arrangiamento vocale e il mio modo di cantare. Le canzoni non sono modificate però sono fatte “alla mia maniera”.
Invece cosa porterà con sé di quest’esperienza? Cosa prende dal ricordo di Édith Piaf?
È uno spettacolo a cui sono molto legata. Intanto perché è stato un grande successo: insomma lo portiamo in giro dal 2017, quindi è sopravvissuto alla pandemia. Édith porta fortuna e porta forza, perché come lei è sopravvissuta alla fatica e al dolore, anche questo spettacolo è sopravvissuto alla pandemia e a diverse fasi di difficoltà. Quello che mi ha insegnato Édith è proprio questo: ogni difficoltà in qualche modo può e deve essere superata. Non bisogna mai arrendersi, bisogna sempre rilanciare. Mi ha insegnato che anche nei momenti di difficoltà possono nascere belle occasioni di rivalsa. Édith Piaf è la prova provata che “non è finita finché non è finita”, che non dobbiamo darci per vinti.
In conclusione, c’è un suo momento preferito nello spettacolo? Qual è la canzone che preferisce interpretare?
In realtà le canzoni sono tutte talmente meravigliose che non mi sento di dire che ne preferisco una piuttosto che un’altra: sono tutte canzoni sublimi. Ma sicuramente c’è un momento che per me è bellissimo: prima del finale, quando Édith entra da sola sul palco per cantare “Non, je ne regrette rien”, arriva con le sue pantofole nere e si ritrova in solitudine davanti a questo microfono, che è lì che la guarda. La luce la aspetta e lei deve fare un lungo attraversamento del palco prima di arrivare al microfono: ecco questo è uno dei miei momenti preferiti.