L’intervista. Lucia Calamaro e la storia di una scrittrice sull’orlo di una crisi di nervi
Tre Premi Ubu per “L’origine del mondo” del 2012 e un’altra lunga serie di riconoscimenti ottenuti in una ormai ultraventennale, brillante carriera, fanno di Lucia Calamaro uno dei nomi più apprezzati del teatro italiano contemporaneo (da noi, ma anche all’estero).
Abbiamo avuto la fortuna di poter scambiare due chiacchiere con lei dopo la visione di “Smarrimento”, un monologo in replica al Teatro Basilica di Roma fino al prossimo 4 febbraio che gode dell’eccellente interpretazione di un’altra stimata professionista del mondo dello spettacolo, Lucia Mascino, impegnata a portare in scena una nevrotica quanto umanissima e divertentissima scrittrice in preda ad un blocco creativo, la quale prova a raccontare agli spettatori, oltre che se stessa, anche i due personaggi principali del romanzo che ha immaginato ma non è ancora riuscita a tirar fuori dalla sua penna.
Leggi anche: Al Tsa dell’Aquila va in scena “Buonanotte, mamma” con Marina Confalone e Mariangela D’Abbraccio
La prima impressione che ho avuto guardando “Smarrimento” è che la sua sia una scrittura che ha bisogno di essere “abitata”, più che recitata. Se è così, ci può spiegare da dove prende origine? E che tipo di lavoro deve svolgere un attore per farla propria?
Un attore che lavora con me deve sempre dare l’impressione che stia improvvisando, non recitando. Voglio che lo spettatore, vedendolo, abbia la certezza di trovarsi davanti a qualcuno che sta pensando, che sta davvero agendo. Ed è questo quello che succede anche in questa pièce con Lucia Mascino. Se si riesce a creare questo effetto, allora si sta procedendo nel modo giusto e ne risulta favorito anche lo spettatore, dal mio punto di vista, perché si ritrova a seguire un’azione vera, un frammento di vita reale, credibile.
Sempre parlando del suo modo di scrivere: tenendo presente la natura visiva e orale del teatro, lei concepisce le sue drammaturgie come strutture concluse e ben definite o è propensa ai cambiamenti in corsa?
Le mie non sono mai strutture ben definite, mai! Quello che mi interessa è innanzitutto focalizzare un tema ben preciso e poi lavorarci durante la costruzione dello spettacolo, tenendo in considerazione anche quello che gli attori devono fare o possono apportare mettendoci del loro. Di solito quando arrivo in sala prove lo faccio con quelli che considero solo dei materiali scritti di partenza, a volte senza aver stabilito neanche un intreccio definitivo. Questo aiuta sia me che gli attori a dar vita a quei mondi “interni”, interiori, che mi interessa poi mettere in scena per coinvolgere chi guarda. Nel caso specifico di “Smarrimento”, il tema che mi interessava focalizzare è stato quello del piacere di iniziare un qualcosa. C’era già e sempre ci sarà tanta letteratura sul tema della fine, no? Beh, io ho preferito concentrarmi su quello opposto, decisamente meno battuto!
Nello spettacolo, nonostante si tocchino o si sfiorino argomenti molto delicati (su tutti quello del rapporto di coppia e della crescita dei figli), si ride molto. Quanto è importante per lei l’uso dell’ironia nel raccontare una storia?
È fondamentale, niente di meno. Bisogna ridere, è come quando il medico ti prescrive la classica mela quotidiana per tenere lontani i malanni. Ma poi pensiamo anche a questa cosa: una persona, quasi sempre, viene a teatro dopo aver avuto una sua giornata lavorativa (e non solo) che molto spesso è stata dura: avrà diritto di farsi una risata o no? Adoro far ridere, credo sia fondamentale per creare legami più saldi con i tuoi colleghi, con i tuoi spettatori e a farsi volere più bene da entrambi. E non bisogna dimenticare un altro aspetto decisivo: attraverso la risata, si ha la possibilità di poter parlare di certi temi, anche duri, in modo più facile. Favorisce senza alcun dubbio non solo la creazione di un clima più empatico con lo spettatore, ma permette anche alla tua scrittura di essere più densa, maggiormente complessa, stratificata. Diffido della serietà (perlomeno come atteggiamento tranchant)!
Leggi anche: Luigi Tenco, storia dell’intervista poche ore prima della morte
Dirigere le sue opere è fondamentale per lei affinché si realizzi completamente la sua “visione”?
Assolutamente sì! Io credo che la drammaturgia implichi già di per se stessa il concetto di regia. Un testo, a ben riflettere, ha già la regia incorporata, che poi si chiarisce meglio e prende una forma più definitiva durante le prove di uno spettacolo, ma è già lì in nuce, sempre. E questo si mantine anche quando si viene tradotti in un’altra lingua, come è capitato ad alcuni miei testi. Adesso sto provando a scrivere per terzi, ma non credo che questa mia convinzione verrà mai meno.
Durante la sua formazione, quali sono stati gli scrittori per lei più importanti e quando ha sentito per la prima volta di aver trovato una sua voce?
La mia formazione è stata principalmente quella di un’attrice, anche se poi ho capito che farla mi annoiava, così come fare solo la regista come pure ho provato. In ogni caso, direi che gli autori che ho amato di più nella mia prima fase di “gestazione” narrativa (ma li amo anche oggi, sia chiaro) sono stati senza dubbio Beckett e Bernhard. Però devo anche aggiungere che ho sempre prestato una grande attenzione al concetto di parola e alla capacità che hanno avuto tanti poeti, attraverso di essa, di saper far stare tutto il mondo in un “posto” piccolo come è la poesia. Ecco perché non posso fare a meno di citare alcuni di loro come Gregory Corso, Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici e Amelia Rosselli tra le mie influenze.
Per quanto concerne il momento in cui credo di aver trovato la mia voce, direi che è avvenuto con “Tumore”, quindi ormai venti anni fa. Con quella drammaturgia penso di essermi davvero “trovata”, di aver capito come dovevo scrivere. Quando lo faccio, quando accendo il computer, io sento come se mi stessi facendo da parte per lasciar spazio ad un’altra me, più intelligente di me. E lascio che parli lei, anzi, che scriva lei. In perfetto silenzio e con l’illuminazione di una sorgente di luce artificiale. Esattamente come la protagonista di “Smarrimento”!
Ho letto che, normalmente, impiega tre o quattro anni pe realizzare un nuovo spettacolo. Dobbiamo quindi aspettarci a breve qualche novità?
Beh, questo valeva fino a qualche tempo fa, da poco sono diventata un po’ più veloce. Indicativamente adesso ci metto un paio di anni a metter su qualcosa. Il primo anno, il primo anno e mezzo, di solito se ne va per prendere appunti, ponderare sotto tutti gli aspetti il tema da trattare e svolgere il lavoro di scrittura e di prove con gli attori. Il resto serve alla realizzazione pratica dello spettacolo e quindi prevede i contatti con i teatri e tutto ciò che di “burocratico” si possa immaginare. Per quanto riguarda il mio prossimo impegno, sono molto concentrata sulla ripresa del mio “L’origine del mondo”, che dal 22 al 28 marzo prossimi sarà all’Argentina.
Un consiglio spassionato da chi vi scrive: andate a vedere gli spettacoli di Lucia Calamaro! Non ve ne pentirete.