L’intervista. Anna Bellato al teatro Argot con “Diario di Lina”
Grande attesa stasera per il debutto al teatro Argot di “Diario di Lina”, ultima produzione di Teatrodilina, una sorta di evento teatrale che fino a domenica 26 novembre permetterà di conoscere meglio, da vicino, l’anima di una delle compagnie più interessanti e apprezzate del panorama italiano.
Quale migliore occasione per scambiare quattro chiacchiere con una delle protagoniste (insieme a Francesco Colella e Leonardo Maddalena), Anna Bellato, che molti di voi avranno apprezzato sul piccolo schermo nei panni di Cecilia Porta, la vicina di casa di Rocco Schiavone nella serie cult interpretata da Marco Giallini e tratta dai romanzi di Antonio Manzini? Ecco che cosa ci ha raccontato.
Nell’ormai lungo percorso di Teatrodilina, che tappa rappresenta questo “Diario di Lina”? Come è cambiato rispetto agli inizi il modo di concepire il vostro motto: “Fare teatro è il gesto più contemporaneo e potenzialmente irreparabile”?
Il nostro modo di fare teatro insieme si evoluto di pari passo con le nostre singole esperienze lavorative al di fuori della compagnia. Potrei dirti che funziona più o meno sempre così: quando ci incontriamo per lavorare ad un nuovo spettacolo partiamo subito dal raccontarci quello che ci è successo quando non eravamo insieme e da lì, raccontandoci appunto, cominciamo in automatico già a raccontare agli altri. Nel caso specifico di quest’ultima pièce i “motori” sono stati la perdita della cagnolina che fungeva da nostra mascotte (Lina, appunto) e la mia seconda gravidanza, che, in qualche modo, lo hanno reso un po’ una sorta di “diario”, come recita il titolo. Francesco Lagi (regista e drammaturgo della compagnia) è partito da qui per mettere su una storia in cui, come al solito, si parla di piccoli accadimenti quotidiani, relazioni tra persone, inciampi. La nostra attenzione è sempre molto focalizzata sulla quotidianità, sulla vita minuta.
Essendo voi un gruppo aperto a tante collaborazioni, la genesi degli spettacoli non è soggetta a variazioni a seconda di chi fornisce l’input iniziale, quindi?
Pur riunendo in sé diverse persone provenienti da diverse esperienze, la nostra prassi teatrale non cambia molto. Di solito, Francesco si presenta con un testo che ha scritto pensando a noi, a quello che siamo e a quello che ci siamo raccontati. Pur essendo quasi sempre un testo completo, nondimeno può anche essere considerato “aperto”, perché quando poi cominciamo a lavorarci tutti insieme, possono emergere delle chiavi di lettura e dei percorsi di restituzione del messaggio diversi rispetto a quanto preventivato. Di sicuro, ci applichiamo molto nelle prove. Anche per testare al meglio quello sguardo giocoso e ironico sulla vita che caratterizza i nostri spettacoli.
Nel vostro repertorio si alternano drammaturgie originali a (liberi) riadattamenti di opere letterarie famose (“Anime Morte” di Gogol, per esempio). Come stabilite che un testo possa o non possa andar bene per voi? Quali sono le peculiarità che deve necessariamente avere?
Tendenzialmente, lavoriamo su testi originali anche se, appunto, non disdegnamo qualche incursione che prenda le mosse da qualcosa di già scritto, come è avvenuto anche per “Zigulì”, tratto dal bellissimo libro di Massimiliano Verga. Potrei dirti che per noi l’importante è non lasciarci scappare mai l’occasione di raccontare la vita, ecco, o di poter usare in un certo modo la fantasia anche quando essa non è necessariamente ancorata alla realtà. Inoltre ci piace anche l’idea di poter “contaminare” un testo, trasformandolo magari non soltanto in un’opera teatrale ma anche in un film, come è accaduto sempre con “Zigulì”, e come ci piacerebbe che accadesse anche con altri spettacoli.
Porterete “Diario di Lina” in un piccolo teatro (di culto) come l’Argot. Ambienti così raccolti pensi risultino più funzionali al vostro discorso rispetto a spazi più ampi? E, per te in particolare, le dimensioni e la storia di un palcoscenico hanno la capacità di influenzare il tuo lavoro?
Sì, sicuramente. La prossimità con lo spettatore è un elemento molto importante nel nostro modo di fare e di concepire il teatro, anche se non è detto che si debba sviluppare necessariamente in spazi piccoli. Ci capita e ci è capitato spesso di lavorare in sale molto più grandi dell’Argot e riuscire comunque a trovarla.
Da ormai tre lustri, oltre che a teatro, sei attivissima anche in televisione e al cinema. È una poliedricità interpretativa che ha funzionato fin da subito oppure ha avuto bisogno di essere affinata negli anni? E quali consideri le tue interpretazioni più importanti?
Innanzitutto ci tengo a sottolineare di essere molto contenta di lavorare su più fronti. Non è sempre facile, non è sempre possibile. Tutto dipende dall’occasione. Detto ciò, io considero la mia ricerca piuttosto simile nei diversi ambiti, anche se magari a teatro può risultare più creativa, più gratificante. Se dovessi dirti quale ritengo le mie esperienze professionali più importanti, ti direi a teatro, naturalmente, quelle con Teatrodilina, al cinema “L’ultimo terrestre” (regia di Gianni Pacinotti), “Quasi Natale” (regia di Francesco Lagi) e il più recente “L’Invenzione della neve” (regia di Vittorio Moroni) e in televisione la serie di “Rocco Schiavone”.
Ecco, a proposito di “L’invenzione della neve”, in cui interpreti la sorella della tormentata protagonista Carmen (impersonata da una bravissima Elena Gigliotti) e insieme alla quale dai vita a scene di grande intensità emotiva: che esperienza è stata recitarci e, già che ci siamo, come vedi il futuro del cinema indipendente italiano?
È stata una esperienza abbastanza anomala a livello di recitazione cinematografica, perché Moroni ha utilizzato spesso il piano sequenza che ha delle implicazioni, come dire, molto “teatrali” e non è così frequente nella settima arte (perlomeno non con una simile insistenza). Dal punto di vista umano, personale, la definirei niente di meno che assai gratificante. Elena è stata una partner fantastica, molto generosa, ma anche con tutto il resto della troupe e con Vittorio mi sono trovata bene. Lui è un regista che si prende tanta cura dei suoi attori.
Per quanto riguarda quello che succederà di qui a breve al cinema italiano, è difficile risponderti. Di certo, al momento, c’è che la gente non va più molto al cinema, ha perso un certo tipo di ritualità che prima invece era molto importante. Se non si ritornerà a un concetto di condivisione, se si continuerà a pensare sempre in termini di “piattaforma” come si fa ultimamente, sarà dura. Però non vorrei passare per pessimista, sia chiaro. Dico solo che ci vorrebbe più amore per l’arte e per… l’indipendenza!
Ti viene offerta la possibilità di scegliere il ruolo dei sogni. Quale scegli al cinema e in teatro? E se potessi scegliere anche il regista?
Amando io le commedie dove, nello stesso tempo, si ride e si piange, non mi sarebbe dispiaciuto per niente interpretarne qualcuna del primo Woody Allen. A teatro sono felicissima di quello che ho fatto e sto facendo con Teatrodilina. Se ti dovessi citare qualche regista teatrale, direi Nekrošius. Di cinema, Baumbach o Antonio Pitrangeli. L’importante per me è comunque trovarmi a lavorare dove, contemporaneamente, c’è l’ironia e si sogna.