L’intervista: i selflore presentano “L’immagine che ho di me”, il loro primo album
L’immagine che ho di me è il primo album dei selflore, un disco in bilico tra suoni granitici e la ricerca di una melodia comunicativa, per esporsi, incontrarsi e sciogliere il ghiaccio che ci divide.
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Nelle sei tracce del disco l’imprinting emo punk dei membri della band sa ammorbidirsi avvicinandosi di volta in volta a generi diversi. Se le chitarre passano da melodie più alternative rock a distorsioni più shoegaze, la voce cerca una sua direzione personale, sporca ma sempre intellegibile. Il basso scurisce e da profondità e coerenza a questo unicum sonoro che viene colorato da spunti più moderni come beat di batteria elettronica e l’inserimento di synth e sample.
L’immagine che ho di me verrà pubblicato in due edizioni limitate: il vinile è prodotto da Non Ti Seguo Records (IT), Dancing Rabbit Records (DE), Engineer Records (UK), Fireflies Fall (FR) mentre la versione in tape è curata da È un brutto posto dove vivere (IT).
Ne abbiamo parlato proprio con i selflore.
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L’intervista ai selflore
Chi sono i selflore? Come nasce la vostra collaborazione?
I selflore sono quattro ragazzi sparsi tra Milano e Como. Nel 2021, tre di loro hanno deciso di unire quello che rimaneva dei gruppi in cui suonavano prima che il Covid-19 fermasse tutto e creare qualcosa di nuovo dando tutto quello che avevano. Nel 2022 pubblicano tre singoli accompagnati da una storia raccontata in video; il regista entra poi a far parte della formazione in veste di chitarrista.
Un nome originale, già a partire dalla scelta grafica dell’iniziale minuscola: spieghiamolo ai nostri lettori…
selflore è una parola composta, dove “-lore” è un termine inglese che indica le storie tramandate oralmente (da cui folk-lore, per capirci). Potremmo dire che il “self lore” è la narrazione del nostro sé, l’insieme di quello che gli altri raccontano di noi e quello che noi raccontiamo di noi stessi: quasi mai tutto questo corrisponde alla realtà oggettiva dei fatti.
Come si potrebbe definire il vostro stile?
Dopo esserci inventati un termine per dare il nome al progetto abbiamo anche cominciato a dire di suonare “swervecore“, ma per decenza potremmo dire che suoniamo un post hardcore ben condito di effetti, con una base elettronica che nella sua sottigliezza sorregge tutta la struttura. Troppo diretto per essere shoegaze, troppo liquido per essere post hardcore.
C’è qualche artista musicale da cui prendete ispirazione?
Ce ne sono molti, dato che siamo quattro persone con quattro modi diversi di ascoltare musica. Stin ha una maglietta dei Title Fight che mette almeno una volta a settimana dal 2018 anche quando in cuffia ha Olivia Rodrigo. Citte va in giro con i Brutus a palla nello stereo della macchina ma poi alle 17 beve il tè ascoltando Mitski. Mars non si è ancora stufato dei Deafheaven perché li alterna ai Beach Fossils. Flip pulisce casa con Machine Girl e crede che se non fosse stato per gli Hum la nostra scena praticamente non esisterebbe.
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“L’immagine che ho di me” è il vostro primo album. Come è avvenuto il processo di songwriting?
È avvenuto senza pensarci troppo, riordinando e rifinendo i pezzi che abbiamo buttato in pasto da subito alle persone che ci venivano a sentire dal vivo nei primissimi concerti ed escludendo per scelta i singoli che avevamo già pubblicato. Ne sono usciti fuori un lato A e un lato B ben distinti, con i primi tre pezzi che attaccano frontalmente e la seconda metà che si ferma per cambiarsi d’abito rivelando la base elettronica dell’insieme.
L’artwork individuato come copertina dell’album rappresenta una baita nella neve: come mai questa scelta?
La baita nella neve rappresenta il nostro spazio sicuro, letterale o metaforico, dove accogliamo le persone a noi care, e da cui in certi momenti dobbiamo per forza uscire, per espandere la nostra zona di comfort. Questo tema è assolutamente centrale per il disco, soprattutto in pezzi come Bordeaux, Ragnatela e Terraria: frasi come “sono solo un pesce fuor d’acqua, l’oceano sei tu“, “normalizzare l’assenza del rumore di casa, la sensazione che non potrà più tornare“, “fare a meno delle abitudini, ma alla fine scappo sempre“, “resto qua, dentro il mio giardino” esprimono la tensione tra il rimanere ancorati alle certezze e l’inevitabile, necessario avventurarsi nel gelo dell’ignoto.
Qual è “l’immagine che avete di voi”? E quella che vorreste il pubblico avesse dei selflore?
Ognuno di noi quattro darebbe almeno una risposta diversa alla prima domanda, a seconda del momento della giornata, del luogo in cui si trova, di quello che sta facendo, di quello che gli passa per la testa.
Per quanto riguarda il pubblico, veniamo da una scena in cui la divisione tra chi suona e chi in quel momento non suona è assolutamente labile: per questo diremmo che l’immagine che chi ci ascolta ha dei selflore non è altro che la somma di quello che pensa di Stin, Citte, Mars e Flip. Quello che ci interessa è cosa pensate della musica, dei vinili, delle cassette, delle maglie che abbiamo fatto per voi, il resto non importa.
Nel brano Judoka cantate “Dimmi perché piangi / sopra quel muretto / judoka dalle scarpe, rotte / persa nella tua tenda“. Chi è l’atleta del brano? Si tratta di una metafora?
La Judoka è una figura che all’inizio sembrava un miraggio, un’allucinazione alla Fata Morgana sul ciglio della strada e invece era davvero una ragazza con una casacca da judo che piangeva seduta su un muretto. Abbiamo pensato che fosse stata una delusione sportiva, una gara andata male, poi ci siamo ricordati che tutti noi sentiamo addosso delle aspettative, indossiamo maschere, percepiamo delle umiliazioni.
Abbiamo messo queste parole in chiusura del disco per ricordarci che per quanto possiamo essere autocentrati nel nostro “me”, con la nostra immagine, la nostra comfort zone, le nostre persone care, là fuori ci sono milioni di sconosciuti a cui passiamo davanti ogni giorno e che non ci conosceranno mai.