Parole & Suoni. Nick Drake, il poeta maledetto del rock inglese in bilico tra Baudelaire e Robert Johnson
C’è una sorta di ingiustizia che si aggira negli ambienti della musica. In quella rock, poi, che di sfumature e contorni ne conosce a dozzine, sembra essere ulteriormente feroce, quasi sadica, focalizzata a gestire con scarsa equità i suoi esponenti più delicati. Sventure e disavventure fanno da sfondo a una casta di musicisti che col destino sembrano avere un conto in sospeso. E probabilmente è così. Di casi illustri ne potremmo citare tanti, tantissimi, ma solo parte di questi, per dirla con i volgari censori aprioristici, “se la sono andata a cercare“. Ammesso che vi fosse, ab origine, una precisa volontà.
Chi di certo non se l’è cercata è stato Nick Drake. Musicista, autore di liriche di straordinaria bellezza per introspezione e sensibilità, effige di tutta quella palesata malinconia, di quel malessere interno, di quell’inquietudine che hanno finito per divorarlo e devastarlo. Uno scrittore sopraffino, un chitarrista sofisticato e forse troppo sottovalutato. Non un guitar hero, ma quel tipo di outsider dotato di talento e classe quanto basta per infondere un marchio ben riconoscibile al proprio stile.
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Nicholas Rodney Drake non era un banale compositore o un semplice autore, bensì un poeta che ha trovato rifugio nella sei corde e nelle sette note che, nella sua seppur breve carriera (solamente tre album all’attivo), ha lasciato un’impronta ben marcata nel cantautorato del genere. Un poeta con una folle ammirazione e una sincera passione per quella corrente francese che in Baudelaire o Rimbaud vedeva i suoi massimi rappresentanti. Interesse, quello per la scrittura decadente, coltivato fin dall’adolescenza, quando prima di iscriversi alla facoltà di letteratura di Cambridge ebbe l’epifania per il genere durantae una vacanza-studio in Francia. Fu qui che scelse di approfondire la visione intimista e ultraesistenziale dei suoi cantori più amati.
Parallelamente all’interesse per la poesia, il figlio di papà Rodney e mamma Molly si avvicinò alla musica e al blues in particolare. Scoprì i grandi del genere ma si affezionò, in particolar modo, a Robert Johnson, un altro che, in quanto a leggende e dannazione, resta tutt’ora un mistero. Il chitarrista afroamericano, si racconta, strinse un patto col diavolo affinché questi gli fornisse un talento smisurato. Un compromesso diabolico, appunto. Una vita breve e intensa che culminò con la morte prematura in data 16 agosto 1938. Le circostanze del decesso non furono mai chiarite del tutto. Aveva 27 anni.
Ma Nick non era Robert e lo stile non era paragonabile. Pochi giri di blues, qualche accordo, tanta inventiva e sperimentazione, specialmente nelle accordature e nel sound, al punto che la riproposizione dei brani dal vivo si rivelava particolarmente complessa proprio per i sopra citati motivi. Drake aveva qualcosa in più degli altri: la capacità di guardare oltre, la visione di un insieme composta da anima, cuore e fragilità. Un ensemble altrettanto luciferino. Fu proprio questo connubio a far cadere su di lui un lento ma inesorabile drappo nero.
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Decise di mettere a nudo le proprie emozioni, di veicolarle sotto forma di musica, di svelare pubblicamente la propria intimità. L’amore per la poesia non lo abbandonò mai, anzi, se possibile aumentò col tempo, nutrendo la latente vena artistica con parole e concetti capaci di arrivare dritti, spesso come un macigno, all’ascoltatore. Era dolce, Nick. Era fragile, Nick. Era inquieto, Nick. A tutto ciò non sfuggì, sapeva di essere stretto in una morsa e di non poterne uscire. Erano i suoi punti di forza, ma anche le sue debolezze. Il supporto clinico dalle medicine che assumeva poteva avere effetto fino a un certo punto, dopo di che uscì inesorabilmente fuori lo spleen, quella morsa di emotività e dolore troppo difficile da sopportare.
Il tentativo di tornare a casa da mamma e papà, in quell’ambiente che Giovanni Pascoli identificò come “Il Nido” valse a poco. L’anima di Nick era ormai ostaggio di demoni e sofferenze, di scarsa capacità comunicativa col mondo esterno – se non tramite le sue canzoni – e di oziosi silenzi miscelati da atarassica indifferenza e incolpevole malessere. Non lo scelse. Non “se l’è cercata”. Un poeta maledetto, il nativo di Yangon, Birmania, che con Robert Johnson riuscì ad avere un’affinità. L’unica, la più sbagliata. L’età del decesso. Johnson morì 27enne, Drake ventiseienne. Un anno di differenza. Che vuoi che sia.
“Five Leaves Left” (1969), “Bryter Layter (1970) e “Pink Moon” (1972) sono la sua eredità, il suo epitaffio musicale carico di sentimenti agrodolci, sfumati da momenti di esaltazione artistica, contornati da pathos e sofferenze troppo, troppo difficili da celare o nascondere agli occhi dei più. Debolezza e fragilità vanno spesso in coppia. Si spalleggiano e si fronteggiano fino a che uno dei due non ha la meglio. Nick Drake è stato più di un semplice musicista, cantore, poeta. E’ stato un cigno dei più eleganti, ammirevoli e splendenti.
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Morì il 25 novembre del 1974 nella casa dei suoi genitori a Tanworth in Arden, nella campagna inglese a nordest di Londra. La madre, preoccupata dal fatto che a mezzogiorno il ragazzo ancora non si fosse alzato andò a svegliarlo. Lo trovò riverso nel letto, stretto sotto le lenzuola, contratto. L’autopsia dirà che era morto intorno le sei, sei e mezzo del mattino, probabilmente a causa di un arresto cardiaco derivante da un’assunzione esagerata di farmaci.