Daniele Salvo e l’oscurità senza tempo di Macbeth. L’intervista
A poche ore dal debutto del “Macbeth” sul palco del Globe di Roma (repliche fino al 25 settembre), abbiamo scambiato quattro chiacchiere con il regista dello spettacolo Daniele Salvo, che ci ha parlato del suo allestimento del capolavoro shakespeariano. Ecco cosa ci ha detto.
Nella costruzione del suo “Macbeth” che ruolo ha avuto il particolare contesto spaziale del Globe? Che vantaggi le ha dato rispetto al discorso che voleva portare avanti e quali limitazioni?
Il Globe non è un teatro uguale agli altri e, proprio per questo, offre possibilità diverse. È poco profondo e molto largo, dà una visione frontale spiccata e condiziona in modo considerevole la messa in scena. Bisogna però pensare che le opere di Shakespeare sono state scritte per essere rappresentate proprio in un contesto logistico di questo tipo, quindi i tempi di uscita e di entrata in scena sono, in qualche modo, esattamente quelli immaginati dal Bardo nei suoi testi. Dunque, quelle che possono sembrare a prima vista delle limitazioni spaziali per un regista, si trasformano in realtà in stimoli continui, in possibilità di creare qualcosa di non convenzionale, soprattutto per il contatto più avvolgente con il pubblico, sul quale si può fare maggior presa.
Quanto è cambiato il suo spettacolo in questi cinque anni? Le attuali vicende politiche italiane e internazionali lo hanno “aperto” verso nuovi significati, nuove metafore?
Il disegno dello spettacolo rispecchia abbastanza fedelmente quello del 2017, anche se il cast è quasi interamente nuovo, a partire dal protagonista, Graziano Piazza. Quindi, è stato fatto un lavoro preparatorio molto importante sulla recitazione. Le vicende politiche attuali, sì, mi hanno fatto molto riflettere rispetto all’allestimento. Partiamo dal presupposto che il Macbeth è la tragedia dell’ambizione umana, quella in grado di divorare le menti, ed è anche la tragedia della notte, che in quest’opera assurge a vera protagonista, acquisendo una natura quasi “materiale” e mangiando letteralmente il cuore delle persone. In Shakespeare il sovrano al quale subentra Macbeth viene fisicamente ucciso, mentre invece oggi ci sono metodi diversi per “far fuori” i governanti e realizzare gli intrighi di palazzo e prendere il potere. Tuttavia la sostanza non cambia e il testo rimane attualissimo, in quanto il clima di sospetto, diffidenza e instabilità che lo ha prodotto è molto simile a quello che viviamo noi oggi.
Lei che da anni opera come regista e ha avuto modo di lavorare con grandi del teatro italiano, ci spiega come riesce a preparare un attore (in questo caso specifico Graziano Piazza) per l’interpretazione di certi ruoli? Dove inizia-finisce il suo lavoro e dove quello del suo “assistito”? E, soprattutto, qual è il punto di incontro più ragionevole?
Il focus principale del mio lavoro parte innanzitutto dal linguaggio, dalla decodifica del testo, perché il testo non va frainteso, questa per me è una regola che non viene mai meno. Del testo va fatta un’esegesi puntuale, altrimenti si rischia di fraintendere i ritmi dell’opera, tradendone lo spirito.
Poi mi concentro molto sul far emergere l’emotività dei miei attori, cercando di creare una sorta di transfert delle loro vicende personali in quelle che poi devono essere messe in scena (la famosa “personalizzazione” di cui parlava Albertazzi, per intenderci). Naturalmente ogni attore è un universo, quindi non esiste un approccio standard, bisogna trovare ogni volta un nuovo punto di incontro e/o di scontro per andare avanti ed essere efficaci. Io miro a creare un teatro di interpretazione, qualcosa che, ai giorni nostri, risulta piuttosto desueto ma che, nondimeno, per la mia sensibilità è ancora l’obiettivo più significativo al quale si deve tendere. Non disprezzo lo sperimentalismo e la performance, ma per me la centralità deriva sempre dal testo, d’altronde vengo dalla scuola di Ronconi, non potrebbe essere altrimenti.
I grandi drammaturghi nei loro testi tracciano una via molto precisa che va, come dicevo prima, innanzitutto decodificata: per non perdere i “passi” e per ritrovare ciò che il drammaturgo voleva davvero dire, perché il drammaturgo è il vero “regista occulto” di uno spettacolo, è colui che aveva già previsto tutto ciò che deve accadere. Il regista, invece, è un indagatore, una sorta di archeologo al quale spetta il compito di “scavare” nelle intenzioni di chi ha scritto il testo.
L’atmosfera nera e il susseguirsi di colpi di scena del Macbeth sembrerebbe favorire un approccio registico molto più fantasioso rispetto ad altri testi, favorendo in particolar modo l’introduzione di trovate dal sapore squisitamente cinematografico. Se è d’accordo con questo punto di vista, può dirci quali sono stati i suoi riferimenti principali e se con il dilagare di serie tv “oscure” degli ultimissimi anni ha tratto qualche nuova suggestione per il suo allestimento?
Sì, il Macbeth ha una apertura quasi naturale alle soluzioni cinematografiche. Io personalmente mi rifaccio molto a David Lynch e a Stanley Kubrick, o anche a certe atmosfere di David Cronenberg. Sempre rimanendo sul concetto della centralità del testo e sulla necessità di non ricorrere a delle trovate fini a se stesse, credo poi molto nell’idea di trovare un paralinguaggio visivo adeguato per la messa in scena, perseguo molto questo obiettivo.
Voglio trovare un linguaggio moderno partendo dalla visione classica, non mi piace la retorica ed è ben per questo che tengo in forte considerazione i ritmi del parlato, la sua mancanza di affettazione. Certo, bisogna sempre aver presente che si sta lavorando in ambito teatrale, non cinematografico, perché in quest’ultimo (come ho potuto sperimentare personalmente nel mio recente debutto cinematografico) i parametri di riferimento sono ben diversi.
Per quanto riguarda le serie, mi piacciono molto alcuni prodotti di Netflix, che ritengo di ben altro livello rispetto a quello che spesso si vede in televisione e che denotano spesso un’altissima qualità. Tra l’altro, molte di loro denotano in modo evidente una matrice shakespeariana, come d’altronde tanti film che escono nelle sale ai giorni nostri. In ogni caso, dovessi indicare la mia fonte di ispirazione cinematografica più battuta, direi sicuramente che è rappresentata dall’opera di Andrej Tarkovskij.
Chi sono nel 2022 le tre streghe che Macbeth incontra e che lo guidano nella sua sordida avventura di violenza e di insaziabile ricerca di potere?
Innanzitutto ci tengo a dire che nel mio allestimento le tre streghe sono il vero fulcro del racconto. Rappresentano il nostro lato oscuro, tutto ciò che nella nostra quotidianità rimuoviamo, tutti i nostri istinti più cupi, violenti, malvagi che nella nostra vita borghese cerchiamo di sopprimere, anche se, rispetto all’uomo antico, per questo stesso motivo siamo certamente più “frenati” a livello emozionale. Pensiamo all’uomo greco, al suo range emozionale: un greco piangeva nel corso delle battaglie, oggi un certo tipo di esternazioni non sarebbero neanche ipotizzabili in base a certi “costumi” comportamentali ormai invalsi.
Ritornando alle streghe… Sono creature ancestrali, proteiformi e inafferrabili, che hanno a che fare con tutto ciò che in noi c’è di recondito e di rimosso, e nel Macbeth condizionano inesorabilmente l’agire di tutti i personaggi, che da loro sono spinte verso il male, la cattiva azione, di cui in qualche modo esse si rendono sempre ambasciatrici. Fanno letteralmente esplodere l’ego ipertrofico dell’uomo, conferendo all’opera il suo caratteristico, inalienabile “tono” nero.
Sempre rimanendo ai personaggi dell’opera: chi è la sua Lady Macbeth? L’ha concepita come un personaggio “aperto” in grado di rinnovarsi nel corso del tempo e a seconda delle influenze esterne, o l’ha definita in modo più marcato?
Lady Macbeth per me è una mantide religiosa che divora il suo maschio. Nel testo ha un’evoluzione molto evidente, che può essere caricata di mille sfumature (in alcuni allestimenti inglesi è stata addirittura fusa con una delle tre streghe) fin dalla sua comparsa in scena. È un personaggio dalla fortissima valenza esoterica, basti pensare alla sua invocazione di apertura agli dei, con la quale chiede che venga cancellato il suo sesso.
In fondo, a causa della sua ambizione, si potrebbe dire che è una donna desiderosa di diventare un uomo. Non si capisce mai se la sua ambizione sfrenata sia di natura individuale o sia invece “trasferibile” alla coppia, a lei e a Macbeth, alla cosiddetta “coppia reale”. Quando poi con lo scorrere dell’opera prende coscienza della vanità di questa sua ambizione, diventa quasi una creatura di vetro, che va in frantumi nel momento in cui si rende conto dell’inutilità mortifera di certo umano desiderare. E questo la porta a pentirsi dei suoi peccati, in una sorta di “regressione” quasi infantile. È una figura davvero misteriosa, piena di elementi antichi e moderni, è una sorta di nuova Medea, una che oggi potremmo considerare una dominatrice incapace però di salvare la sua anima.
In chiusura: dopo questa ennesima esperienza al Globe, ci può parlare dei suoi progetti per la nuova stagione teatrale alle porte?
A breve sarò impegnato nella Valle dei Templi in un reading sulle “Metamorfosi” di Ovidio con Ugo Pagliai e Paola Gassmann. Poi sarà la volta di “La divina Sarah”, uno spettacolo tratto dai memoires di John Murrell su Sarah Bernhardt, con Stefano Santospago e Lucrezia Lante della Rovere. Riprenderò poi uno spettacolo molto fortunato di qualche anno fa su Edith Piaf, “L’usignolo non canta più”, con Melania Giglio e Martino Duane, portandolo all’OFF/OFF Theatre.
Ancora, porterò in scena uno spettacolo molto duro e particolare sulla SLA scritto da Fiamma Satta, “Io e lei”, sempre con Melania Giglio. Ci saranno infine anche altri progetti importanti per la primavera del 2023, in particolar modo uno del quale, però, al momento non posso parlare. Per quanto riguarda il cinema, uscirà, ancora non so di preciso quando, il mio primo film, che spero possa partecipare a qualche festival nazionale e/o internazionale