Intervista a Michele La Ginestra: “Voglio raccontare la Roma dei sogni”
Michele La Ginestra, attore romano che si divide tra cinema e sopratutto teatro, fino al 27 marzo sarà impegnato al Teatro Sistina nei panni di Rugantino. Andrà in scena poi a Napoli al Teatro Augusteo dal 3 al 10 aprile per poi tornare nella Capitale a maggio per nuove date rese necessarie grazie al sold-out di questi giorni. Un ritorno nei panni del bullo romanesco dopo oltre 20 anni dalla prima volta. Tutto nella versione storica originale “scritta da Garinei & Giovannini, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, collaborazione artistica di Luigi Magni”. Così come compariva nei manifesti del 1962.
Dopo quasi 20 anni è tornato a vestire i panni di Rugantino. Che effetto le ha fatto?
Un effetto particolarissimo. Salire su quel palco ogni volta fa riprovare le emozioni di 20 anni fa, in cui provai emozioni veramente forti. Io passavo dal Teatro Sette che ha 150 posti al Sistina che ne ha 1500, perciò erano delle scariche di adrenalina paurose. E ora l’idea di portare questo personaggio dopo 20 anni con una maturità diversa mi fa stare più tranquillo. E anche se è difficile fare le cose che riuscivo a fare allora è comunque una bella soddisfazione.
Rugantino, insieme a Meo Patacca, è forse la maschera romanesca dell’800 più famosa. Un personaggio a cui i romani, in particolare i trasteverini, sono molto affezionati. Come ha vissuto la preparazione a questa interpretazione?
Da bambino andai a vedere al Sistina, a 15 anni, Enrico Montesano che interpretava Rugantino. Uscendo dissi “da grande voglio fare Rugantino”. Perciò sono cresciuto con questa idea che Rugantino dovesse far parte della mia vita. Un po’ mi assomiglia. Sempre sbruffone, sempre quello che per fare una battuta perde un amico. Però mai cattivo, in fondo non fa male a nessuno. Ed è stato perciò abbastanza semplice riuscire ad immedesimarmi in questo personaggio.
Nino Manfredi, Enrico Montesano, Valerio Mastandrea, Enrico Brignano e lei. Sebbene il romanesco dell’800 non fosse propriamente uguale a quello odierno, Rugantino a teatro mantiene una connotazione linguistica prettamente capitolina. A differenza del tanto discusso Tinea interpretato da Celentano. Rispetto ai suoi colleghi lei ha voluto dare una suo specifico tratto distintivo nel parlato?
Noi a teatro parliamo un linguaggio che è il romanesco della metà dell’800, che appartiene un po’ anche ai nostri nonni. Un romanesco più garbato, meno volgare della romanità che purtroppo oggi accompagna i nostri personaggi odierni. E allora bisogna cercare di trovare una naturalezza che possa però sposarsi anche con qualcosa che appartiene al passato. Questo è il percorso che ho fatto. Sicuramente Manfredi era maestro in questo. Come Montesano. Quelli che mi hanno preceduto sono stati riferimenti importanti e quindi è stato abbastanza semplice il percorso. È quindi una romanità che mi piace, che mi appartiene essendo cresciuto a pane e Gigi Magni. Perciò arrivare ad interpretare questo personaggio mi è sembrato molto semplice.
La Roma descritta da Berneri, Peresio, dal Belli. Quella Roma che “er mejo amico ce l’ho in saccoccia”. Immagino che il calarsi metaforicamente in quell’Urbe le abbia dato molte motivazioni nonché reso orgoglioso.
Roma è qualcosa che ti porti nel cuore, quando sei nato a Roma ti senti cittadino della Città Eterna. Dovremmo portare con orgoglio questo titolo di essere romani. E raccontare una Roma che è quella dei sogni, quella di metà ‘800, fatta con i tempi giusti. Quella dei romani che hanno necessità di passare del tempo a prendere il sole, magari stesi su un pezzo d’antichità che però non apprezziamo neanche più. Per quanto siamo talmente abituati alla bellezza che ci circonda. Raccontare con semplicità quella Roma delle persone che andavano a fare l’amore a Campo Vaccino è un modo per far riscoprire ai romani questa bellezza ed esserne orgogliosi di tutelarla. Il romano vero non butterà mai una carta per terra, non scaricherà mai un frigorifero per strada. Un romano vero tiene alla propria città come tiene alla propria donna.
Serenza Autieri, Massimo Wertmuller, Edy Angelillo. Cosa si prova a dividere il palco con loro.
Il presupposto è che questo è uno spettacolo corale. Fatto di tanti personaggi, anche minori, che sono importantissimi.Ho trovato una compagnia straordinaria. Ho la fortuna di lavorare con Edy e Massimo che sono amici cari con cui ho diviso anche altri palcoscenici e abbiamo fatto anni di tournée e perciò ho una gran confidenza. Con Serena mi trovo molto bene perché è una compagna giusta, una voce straordinaria quando canta e anche se il personaggio non le appartiene totalmente fa i salti mortali perché possa diventare veramente il suo. Perciò apprezzo sempre lo sforzo di chi non è avvantaggiato dall’avere il personaggio che gli cade in tasca. Ho quindi una grande stima e grande rispetto per tutti. La compagnia è una gran bella squadra e il successo di questo spettacolo è dovuto proprio a questo.
Finita questa tournée, che la porterà a Napoli e poi di nuovo a Roma, ha in programma altro?
Abbiamo saputo da poco che “Rugantino” proroga fino a maggio perché abbiamo il tutto esaurito. Poi dovrei ricominciare a girare la fiction di Tv 2000 “Canonico” che mi vede protagonista. Debutterà poi il 27 al Teatro Sette, con Beatrice Fazi, lo spettacolo “Nel nome della madre” ripreso dal libro omonimo di Erri De Luca, in cui ci saranno anche Ilaria Nestovito e Francesco Stella i quali, dico molto volentieri, sono molto bravi.