Mezzo secolo di Arancia Meccanica: quando l’ultraviolenza diventa arte
Nel 1971 Stanley Kubrick sconvolgeva il mondo con Arancia Meccanica. Il film, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Anthony Burgess del 1962, ha segnato la storia del cinema novecentesco e il pensiero della società contemporanea, non esclusivamente per le tematiche in esso trattate, quanto anche per la sua inconfondibile iconografia espressa.
A Clockwork Orange, questo il titolo originale, compie cinquanta anni dalla pubblicazione sul grande schermo. Lo scorso anno, per celebrarne la ricorrenza, è stato proiettato nelle sale cinematografiche, dal 29 novembre al 1 dicembre.
Un’occasione imperdibile per godere appieno della potenza comunicativa del capolavoro del regista statunitense, la cui tecnica cinematografica ha ispirato generazioni di autori cresciute all’ombra dei suoi film. Come non considerazione l’utilizzo dell’ “occhio meccanico“, in cui la soggettività è data direttamente da Kubrick e non dai personaggi.
Oppure i tempi d’azione in cui le inquadrature, specialmente sugli attori, sono più prolungate del previsto e tali da accentuare sguardi ed espressioni. Marchio di fabbrica, poi, è la circolarità delle scene che spesso prevedono un finale che si ricollega all’incipit del film.
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Una costante ricerca dell’equilibrio tra etica ed estetica che il regista ha coltivato nel corso della propria carriera fino a farne tratti distintivi dell’approccio alla camera. “Arancia Meccanica”, di tutto questo, ne è antonomasia. Con esso ottiene quattro candidature ai premi Oscar e tre ai Golden Globe ma, soprattutto, raramente si è visto un film capace di influenzare cinema, teatro, letteratura, costumi e altro ancora come il suddetto.
Nei centoquaranta minuti che danno vita all’opera, Kubrick ci mette di fronte a un’universo di ultraviolenza, principalmente perpetrata da Alexander DeLarge (Malcolm McDowell), figlio di una famiglia benestante, e dai sui Drughi, banda di teppisti con la passione per il Latte+ e la musica classica.
Sulle note dell’overture della Gazza Ladra di Gioacchino Rossini assistiamo a pestaggi, follie ed escandescenze varie, effigi di una società perversa e viziata, annoiata dall’agio e affascinata da una visione distorta del dolore e della sublimazione di se stessi.
“Folleggiammo alquanto con altri viaggiatori della notte da autentici sbarazzini della strada. Decidemmo che era ora i eseguire il numero ‘visita a sorpresa’, un po’ di vita, qualche risata e una scorpacciata di ultraviolenza”
Arancia Meccanica mette in luce il sottobosco delle tentazioni umane, quelle animalesche, carnali, di impeto e vendetta, lontane dalla ragione e dal rispetto per la società.
Dolore chiama dolore e l’espiazione dei peccati passa attraverso lo stesso, sublimazione della vigliaccheria di Alex che dalla musica classica trae ispirazione (“E d’un tratto capii che il pensare è per gli stupidi, mentre i cervelluti si affidano all’ispirazione”) ma nella stessa affonda la propria sofferenza quando subisce il “trattamento Ludovico“.
Kubrick non giudica i suoi personaggi, lascia che sia lo spettatore a farlo.
Ma il bene e il male, esattamente, da cosa sono caratterizzati? Cosa giustifica un’azione violenta, ammesso che possa considerarsi tale? Come si condanna un fatto o un pensiero? E ancora, quale è il ruolo della famiglia, e quale quello degli amici? Attraverso cosa, in definitiva, si ottiene la redenzione?
Il regista ci pone di fronte a questi interrogativi lontano da ipocrita buonismo e naturale mistificazione della realtà che, invece, ci viene presentata malvagia e tentatrice.
La moralità è indifferente di fronte all’autodeterminazione di sé stessi. L’ultraviolenza è l’espediente per mettere a nudo le apparenze e i risvolti psicologici delle azioni compiute da Alex, condannato dal suo ego e dalla sua malsana sete di protagonismo.
L’evoluzione del personaggio è caratterizzata dal percorso umano che intraprende.
Da sbruffone, arrogante e mitomane, diventa pavido e succube dei paradossali esiti del suo stile di vita. La redenzione è lontana, lontanissima se non impossibile, e sceglie, dunque, la strada più semplice per liberarsene. Perché il corpo e la mente non si scindono mai quando è gioco la sopravvivenza.
Cinquant’anni dopo il mito di Arancia Meccanica è ancora intatto, così come il fascino capace di suscitare sul grande pubblico.
Goderne della sua uscita al cinema è atto dovuto, privilegio che ci è concesso in tempi dove l’arte cinematografica, salvo rare eccezioni, è sempre più subordinata alle esigenze commerciali del mainstream.