La scoperta dell’America e Guccini, l’illusione della libertà
Il 12 ottobre del 1492 Cristoforo Colombo scoprì l’America. O meglio questo è quello che la vulgata riassume sbrigativamente.
Tra i banchi di scuola delle elementari tutti hanno studiato i viaggi di questo navigatore ed esploratore genovese. Al comando della Niña, della Pinta e della Santa Maria, finanziato dai sovrani di Castiglia e Aragona, partì il 3 agosto per scoprire una nuova via per l’India. Sempre stando a quanto si è imparato dai mitici sussidiari.
Qui però non si vuol fare un resoconto dei viaggi di Colombo. Se veramente fu il primo ad arrivare nell’odierno continente americano. Se prima di lui furono i romani, i vichinghi o i fenici ad arrivarci. Se il genovese pensasse già che la terra fosse tonda e non piatta. Né tantomeno si vuol dar spazio alle follie iconoclaste di questo ultimo anno.
Non si vuol analizzare quanto divenne importante il suo viaggio ai fini dell’identità europea. Quanto il contatto con queste nuove popolazioni diede agli europei contezza di cosa volesse dire essere tali, in quanto diversi dalla gente del “Nuovo Mondo”.
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La cosiddetta scoperta dell’America è stato ovviamente uno degli eventi più importanti della storia mondiale. Ha segnato la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna (stando alle modalità di divisione della storia attualmente).
E come tale, un evento di tale portata ha ispirato artisti di ogni genere. Film come quello di Ridley Scott con Gerard Depardieu “1492 – La conquista del paradiso“.
Serie tv. Per esempio quella prodotta dalla Rai in 4 puntate nel 1985. Innumerevoli libri, documentari, saggi e quant’altro.
Ma anche canzoni. Come quella di Francesco Guccini, “Cristoforo Colombo“, che troviamo nell’album “Ritratti”.
Il cantautore modenese descrive tutto il viaggio dei Colombo. Dalla voglia di mare, poiché “di terra ne ha avuta abbastanza, non di vele e di prua“, alla convinzione di non sbagliare, di non essere un illuso. Quasi che il navigatore gucciniano fosse un Don Chisciotte con un riscontro reale. I mulini a vento contro cui combatteva il genovese erano veri nemici. Che non credevano in lui.
“Perché ha trovato una strada di stelle nel cielo dell’anima sua
Se lo sente, non può più fallire, scoprirà un nuovo mondo”.
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Solo la regina del Guadalquivir credette in lui. Probabilmente neanche la sua stessa ciurma ebbe così tanta fiducia in lui. Nei libri di storia raramente si parla dei sabotaggi. Degli ammutinamenti. Dei suoi compagni di viaggio stanchi dopo oltre due mesi di mare aperto.
Il Cristoforo Colombo di Guccini però aveva fede. Più in se stesso, nella sua idea, nella sua illusione, che in Dio.
La scoperta dell’America sembrava essere una “fiaccola di libertà”. Ma appena toccate le sponde del Nuovo Mondo ha dei strani presentimenti. Tacchini arrostiti, oro, grattacieli. Tutto gli sembra un incubo. La rovina del suo agognato sogno. Per il quale aveva attraversato l’Atlantico andando incontro all’ignoto. Sfidando pregiudizi, idee antiche, religione e mito.
“E mentre sciami assordanti d’aerei circondano di ragnatele
Quell’inutile America amara leva l’ancora e alza le vele”.
Tornando a navigare verso l’Europa. Lontano da quel sogno di libertà trasformatosi in un incubo. Un incubo di cui lo stesso Guccini in “Canzone per Silvia” parla. L’America non più come piacevole miraggio, come avventura.
Ora è una “prigione federale”.