Slipknot: esordi, successo e fratellanza. Quando il nu metal segnò un’epoca
Ancora stentiamo a credere alla bruttissima notizia della scomparsa di Joey Jordison, storico batterista degli Slipknot e chitarrista dei Murderdolls. Le cause della morte, a soli 46 anni, sembrerebbero dovute alla mielite trasversa di cui egli soffriva. Già nel 2013 Jordison lasciò gli Slipknot proprio per dedicarsi alle terapie necessarie per poi ritirarsi a vita privata, salvo qualche sporadica collaborazione. Insomma, per non infierire ulteriormente: il mondo del metal e della musica tutta ha perso un artista di innaturale talento, con uno stile inconfondibile che ha fatto scuola a parecchia gente.
Che piacciano o meno, gli Slipknot hanno segnato un’importante tappa musicale, ridefinendo il genere nu metal, già portato all’attenzione di tutti con i Korn e i Coal Chamber negli anni ’90. Ma è stata proprio la band di Corey Taylor e soci in quel lontano 1995 a Des Moines, Iowa, a ridefinire i canoni. Le loro inconfondibili maschere, la formazione iniziale con 9 membri, tanto presa in giro per l’inutile (apparentemente) presenza di 2 percussionisti. La quantità imbarazzante di parolacce che Corey urlava in live… Da un semplice gruppo di perfetti sconosciuti ad una delle band seminali di fama mondiale. Il passo fu veramente breve, perché al di là del lato prettamente artistico, gli Slipknot hanno sempre avuto dalla loro dei componenti di indiscussa bravura. A cominciare dal compianto Jordison fino all’altrettanto scomparso Paul Grey al basso.
Tutto nella band lasciava intuire che avrebbe segnato gli anni 2000 con una musica feroce, martellante e caotica. Per non parlare delle esibizioni dal vivo nelle quali gli Slipknot erano in grado di galvanizzare ondate di fan e di trasformare il pit in un tritacarne. Non possiamo non ricordare quel live al Dynamo Open Air nel 1999, a pochissimi mesi dal debutto del primo omonimo album, considerato tutt’ora un capolavoro di nu metal. In quell’occasione il gruppo diede prova di cosa volesse dire “spaccare”, in tutti i sensi.
E poi ancora l’apice toccato dal 2001 in poi, quando venne pubblicato il secondo disco, Iowa, contenente alcune delle tracce più iconiche. Un album che segnò anche la definitiva collaborazione con il colosso Roadrunner Records, che produsse anche il primo lavoro ma con riluttanza. Il motivo? I testi troppo volgari. Beh, le cose non è che siano andate meglio dopo, considerando che uno dei brani di punta di Iowa è People=Shit (letteralmente: “gente=mer*a”). Ma di certo non ci si poteva fermare a queste inezie di fronte all’enorme successo che gli Slipknot stavano riscuotendo anche online. E si parla di un periodo in cui YouTube ancora non esisteva e la scena musicale si portava appresso gli strascichi del grunge. Quindi, per farla breve, se Taylor, Jordison, Grey e compagnia bella riuscirono nell’impresa, un motivo c’era.
E indovinate chi fu uno degli elementi chiave che decretò l’impennata del gruppo? Esatto, proprio Joey Jordison. Il batterista dal sound e tocco inconfondibili. La tecnica ispirata ai grandi del thrash e death metal, come Dave Lombardo degli Slayer, o Pete Sandoval dei Morbid Angel. Lo stile di Joey gli permetteva di spaziare con le ritmiche più disparate. Dal blast beat più martellante alle parti più cadenzate. Non c’era niente che #1 (nome d’arte nel disco omonimo, che in questo caso cade a pennello) non sapesse fare.
Ma, come ogni squadra vincente che si rispetti, non fu solamente il talento e l’innovazione che permisero agli Slipknot di brillare. C’era molto ma molto di più. Un ingrediente che raramente oggi si trova in un gruppo, e che forse è retaggio solamente di un passato musicale che non tornerà più: la fratellanza. Un fortissimo e sincero amore fraterno tra i membri del gruppo, tanto da definirsi una famiglia. Quel legame mentale e viscerale che si riflette in una musica sentita, in cui ciascun dettaglio è lì, nel posto giusto che gli spetta, come il pezzo di un puzzle. Non è un caso che il gruppo abbia scritto ‘Til We Die, sottolineando proprio l’amicizia infinita e immortale tra i componenti.
«I never stopped feeling like family is much more than blood
Don’t go on without me
The piece that I represent compliments each and everyone»
La voce graffiante e arrabbiata di Corey, la batteria superlativa di Jordison, i giri di basso di Paul Grey… E ancora: le chitarre corpose e assassine della combo Thomson/Root, la tastiera malata e acida di Sid Wilson e le martellate (letteralmente, andate a vedere i live) dei percussionisti Shawn Crahan e Chris Fehn. Mettete tutto nel calderone, unite una presenza scenica equiparabile solo a quella dei Rammstein, un coinvolgimento sentitissimo del pubblico et voilà. Gusti o non gusti, che quelli son sempre personali, è indubbio come gli Slipknot abbiano rappresentato la colonna sonora di una generazione intera e soprattutto il salto da un modo di intendere il metal ad un altro.
E quanto ci hanno fatto piangere con le loro struggenti ballad. A ricordarci come il dolore per la fine di un amore, o la perdita di una persona cara resteranno impresse nel cuore, in quei meandri bui e nascosti dell’anima. Ed anche se nel 2021 la loro epoca, culturalmente parlando, è finita, gli Slipknot saranno sempre come una bicicletta alla quale togli le rotelle: una volta imparato ad andare senza, non lo scordi più. Siamo tutti cresciuti con la loro musica, chi più, chi meno. Quindi, per un’altra volta ancora, cuffiette alle orecchie, Snuff a tutto volume… e buon pianto a tutti.
«So if you love me, let me go
And run away before I know
My heart is just too dark to care
I can’t destroy what isn’t there»
In memoria di Joey Jordison