Philip Seymour Hoffman: la fragilità dell’uomo che rese grande l’attore
Era il 2 febbraio del 2014, quando Philip Seymour Hoffman veniva ritrovato privo di vita nel suo appartamento di New York, nel West Village di Manhattan. Causa del decesso: overdose, da eroina, cocaina e benzodiazepine. Come successivamente confermato dalla stampa, nell’abitazione dell’attore furono ritrovate più di cinquanta buste di droga, chiamata “Ace of Spades”. Fu l’amico e sceneggiatore drammaturgo David Katz a trovarlo, ormai morto e con il laccio emostatico e l’ago della siringa ancora conficcata nel braccio. Aveva solo 47 anni ed era considerato, a giusta ragione, tra i migliori attori della sua generazione. Un talento puro, cristallino, conservato dentro al corpo di un’anima fragile. Troppo fragile, purtroppo.
Nato a Fairport, nello Stato di New York nel 1967, dall’aspetto non certo da divo hollywoodiano, arrivò sul grande schermo non senza una gavetta complessa e a lunghi tratti minata da incertezze e inquietudini personali. Determinato a farsi strada, dentro di sé era un ribollire di emozioni contrastanti, spesso negative che si alternavano a momenti di pura esaltazione. La gavetta fu vera, e fu lunga. All’ambizione di attore alternava i lavori da cameriere, da commesso, anche da bagnino. Ma una volta dimostrato il proprio valore, non impiegò molto prima di affermarsi definitivamente. Gli inizi, come detto, non furono facili. Si diplomò all’accademia di arte drammatica di New York nel 1989, dopo aver frequentato una produzione teatrale di Arthur Miller’s All My Sons che aveva solo 12 anni.
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Con Scent of a woman, pellicola del 1992 diretta da Martin Brest (remake di “Profumo di donna” di Dino Risi del 1974), Hoffman iniziò a farsi notare sul serio. Protagonista del film era Al Pacino, al tempo tra gli attori più celebrati e in vista dell’intero panorama cinematografico mondiale. Fondamentale l’incontro con Paul Thomas Anderson che lo diresse in Boogie Nights (1997) e in Magnolia (1999).
Prende parte al cast di pellicole apprezzatissime che ancora oggi, a distanza di diverso tempo dalla loro uscita, fanno parlare il grande pubblico: Il grande Lebowski, Patch Adams, Quasi famosi, Il talento di Mr. Ripley, La 25° ora. Nel 2005 arriva la consacrazione. Veste i panni dello scrittore Truman Capote – a sangue freddo nell’omonimo biopic. L’interpretazione gli vale l’Oscar come Miglior Attore. Ottenne in seguito anche altre 3 candidature all’Oscar: La guerra di Charlie Wilson, Il dubbio e The Master.
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Ma per una carriera che decollava, una vita privata che andava a rotoli. Ogni tentativo di rialzare la testa veniva vanificato dalla dipendenza da eroina, spettro costante di un’esistenza turbolenta. Da giovane aveva avuto gli stessi problemi di dipendenze che poi lo hanno condotto alla morte. Ne era uscito per più di venti anni, ma le fragilità interne, tenute a bada da farmaci e aiuti di vario genere, hanno poi preso il sopravvento, lo hanno divorato e trasportato negli abissi di una nuova, fatale, dipendenza. Quel giorno del 2 febbraio avrebbe dovuto recarsi a scuola, a riprendere i figli. I quali, però, attesero invano l’arrivo del padre che mai più avrebbero rivisto.
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