Da Boccaccio e Manzoni: le epidemie in letteratura
Il 2020: un anno che sarà raccontato sui libri di scuola
Il 2020 sarà sicuramente ricordato come l’anno di una delle più grandi epidemie della storia. Il 2021 rischia la stessa sorte. Il covid19 lascerà strascichi ancora a lungo. Sia a livello economico che sociale. Tante cose sono cambiate e tante cambieranno.
A cominciare dai rapporti interpersonali. Anche quando questa estate c’è stato un allentamento delle misure di contenimento del virus, molte persone avevano atteggiamenti restii, anche incondizionati, ad avvicinarsi ad altri seppur solo per un saluto o a frequentare locali aperti al pubblico.
Virologi, infettivologi, medici, infermieri, sociologi ma anche semplici cittadini continuano a pensare che mascherine e distanziamenti, leitmotiv di questo 2020, entreranno nella routine almeno per qualche tempo. I numeri di morti ed infettati d’altronde parlano chiaro e la psicosi generata sarà difficile da eliminare in poco tempo.
La storia però insegna, così come la letteratura. L’umanità nei secoli è sempre riuscita a risollevarsi da periodi bui e a superare epidemie varie senza la tecnologia e le conoscenze mediche odierne.
Atene 430 a.C. : da Teucidide a Lucrezio, racconti di una epidemia tragica
Le prime attestazioni letterarie di epidemie sono quelle riguardanti la peste nera che colpì Atene nel 430 a.C. di cui parlano lo storico greco Teucidide ne “La guerra del Peloponneso” e Lucrezio nel “De rerum natura”.
Quest’ultimo ci descrive la tragica situazione con una dovizia di particolari per cui sembra purtroppo semplice immaginare la scena dello strazio dei malati.
“E molti altri segni di morte si manifestavano allora:
la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore,
le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce,
le orecchie inoltre, tormentate e piene di ronzii,
il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli,
e stille di sudore lustre lungo il madido collo
sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco
e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse.”
Lucrezio, differentemente da Teucidide dal quale prese spunto, con l’uso di particolareggiato di elementi macabri assegna ai suoi esametri dattilici il compito di descrivere l’impotenza dell’uomo dinanzi la forza distruttrice della natura. Uomo che però ha la ragione come arma e lo invita ad usarla per sconfiggere questa piaga.
Boccaccio e il Decameron: 100 novelle per una Firenze devastata dalla peste
L’opera che però occupa il ruolo di protagonista in questo sottogenere letterario, è sicuramente il “Decameron” di Giovanni Boccaccio. Test scritto tra il 1349 ed il 1351, quindi negli anni immediatamente successivi alla peste nera che colpì l’Europa, è una raccolta di cento novelle di vario tema raccontate da 10 novellatori che l’autore immagina essere fuggiti in campagna da Firenze, devastata dalla peste. L’epidemia fa da cornice alla narrazione, è ciò che mette in discussione in primis la vita, lo status quo, i legami tanto che “era con sì fatto spavento questa tribolazione entrata né petti degli uomini e delle donne, che l’un fratello abbandonava il zio il nipote e la sorella il fratello e spesse volte la donna il suo marito; che maggior cosa è e quasi non credibile? Li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.
Boccaccio rappresenta la vita di tutti i giorni, approfittando anche del volgare italiano, di cui la sua opera rappresenta il capostipite letterario. Tramite la cornice narrativa, tipica della letteratura indiana, fa un quadro chiaro della situazione di Firenze ispirandosi anche all’opera di Paolo Diacono “Historia Langobardorum”. La città toscana era sconvolta e i suoi 10 ragazzi cercarono rifugio quasi in una realtà alternativa. Boccaccio tramite le loro parole, come Lucrezio, vuole dimostrare che l’uomo tramite la sua intelligenza è in grado di superare prove durissime, come appunto la peste del 1348.
Il rifugiarsi in campagna assomiglia molto all’isolamento odierno. Una sorta di auto-lockdown ante litteram. La pandemia crea incertezza nel presente e per il futuro, la diffidenza verso il prossimo visto talvolta come un untore.
Questi sono tutti temi che si rintracciano nelle scritture relative alle epidemie. Come in Alessandro Manzoni che ne “I promessi Sposi” narra della situazione della peste che colpì Milano nel 1630.
Manzoni e gli untori nella Milano del XVII secolo
“La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrare con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia”.
La peste fu un “regalo” dei Lanzichenecchi, che dopo aver distrutto e saccheggiato la città lasciarono questo virus in eredità. I milanesi cercarono di aggrapparsi alla fede chiedendo al Cardinale Federico Borromeo di autorizzare una processione per chiedere la grazia a San Carlo Borromeo. Quello che oggi verrebbe definito un inutile assembramento creò un picco di contagi tanto che la zona del lazzaretto era colma di morti trascinati dai monatti alle fosse comuni.
Ma la morte, la sofferenza fisica, non il solo male che colpì Milano. La mente dei cittadini meneghini fu sconvolta. L’irrazionalità e la superstizione dilagarono. Si cercava ad ogni costo l’untore che, spinto da ragioni politiche, decideva di infettare gli altri. Una nuova caccia alle streghe che diffuse il terrore verso l’altro, verso l’ignoto e subdolo.
Manzoni fu ispirato da questa situazione per l’opera “La colonna infame” in appendice all’edizione definitiva de “I promessi sposi”.
Le parole scritte dal milanese nipote di Cesare Beccaria furono riprese anche da Edgar Allan Poe. Il poeta amante del mistero e del terrore in un articolo del 1835 nel Southern Literary Messenger scrisse che “le scene descritte da Manzoni ci danno cognizione di vera vita vissuta[…]. E può anche servire a persuaderci che la pestilenza dalla quale fummo afflitti recentemente fu, al contrario, uno zuccherino”.
Il ‘900: le epidemie come metafore della vita
Nel XX secolo invece fu Albert Camus con il suo “La peste” del 1957 ad immaginare un’epidemia parlando anche di un tema drammaticamente attuale: il negazionismo. Tema che in questo fine 2020, con l’avvento del vaccino, è tornato più che mai alla ribalta.
E’ un continuo districarsi tra la morte e chi tenta di negare il dolore.
“Si contano i vivi, i morti, e il gioco è fatto. Ma questa porcheria di peste! Anche coloro che non l’hanno la portano nel cuore”. Come a dire, appunto, che il virus non colpisce solo il fisico.
Anche Jack London ad inizio ‘900 in “La peste scarlatta” descrive la distruzione della società a causa di una malattia che riporta l’uomo alla civiltà del tutti contro tutti. All’idea di mors tua vita mea.
Il virus non colpisce solo il fisico. Ma anche la mente. Entra subdolamente nella vita dell’uomo imponendogli non solo un modus vivendi fatto di rinunce e paure, ma alimentando anche una forma mentis per cui lo spirito comunitario può perdere di valore a discapito del bisogno del singolo.
La storia in qualche modo sembra ripetersi, ponendo l’uomo davanti a prove che sembrano insormontabili. Esattamente come l’attuale coronovirus.
Ma come insegna Dante “e quindi uscimmo a riveder le stelle”. Basta non far entrare il virus anche nelle nostre teste. Cercando il nostro Virgilio, magari, tra i libri. Cosicché il problema sia il 2020 in sè. Non il 2020 in noi.