Klaus Kinski, il nemico più caro
Avevamo già accennato alla convivenza di Werner Herzog e Klaus Kinski, nella pensioncina di Monaco. Siamo negli anni crepuscolari del conflitto mondiale. In questo momento embrionale per il suo cinema, c’è una figura che aleggia come uno spettro invadente. Klaus Kinski aveva 28 anni, era un attore agli esordi – aveva recitato con Rossellini in un piccolo ruolo non accreditato, ne “La paura” – e da lì a due anni reciterà nel film ‘All’est si muore’ di Laszlo Benedek, nella parte di un sottotenente.
Sarà il film con cui Herzog conoscerà davvero le capacità di Kinski: “Interpretava un tenente che portava al fronte dei ragazzi di scuola. A un certo punto, le madri e le ragazze dei soldati si mettono a dormire. All’alba Kinski viene svegliato, e il modo in cui si sveglia mi è rimasto impresso per sempre. Quel preciso momento mi colpì profondamente, tanto da segnare la mia intera vita professionale. È strano come la memoria possa ampliare un ricordo del genere.”
Kinski si presenta nella vita di Herzog come un’epifania, ma la convivenza casuale degli anni giovanili aveva già introdotto il regista tedesco alla performance diffusa che portò Kinski, tra le altre cose, a distruggere la porta della camera a calci, gettando per aria le sue camicie, perché non erano state stirate bene. “Una volta venne a trovarci un critico, che aveva visto uno spettacolo dove Kinski aveva un piccolo ruolo. Gli disse che avrebbe scritto che era stato straordinario. Kinski gli buttò in faccia due patate bollenti e gli urlò: “Non sono stato straordinario. Sono stato monumentale! Sono stato epocale!”, racconta Herzog all’inizio del documentario dedicato a Kinski, ‘Il mio nemico più caro’ – lo trovate su Prime Video.
Come avevamo già scritto, Herzog conosce così la sua nemesi, un doppio con cui si inseguirà per 15 anni, e dal cui incontro-scontro nasceranno cinque pellicole indimenticabili. Quel bisogno di esplorare il mondo, arrivando al confine degli spazi civilizzati, mettendo a rischio la propria vita, lanciandosi in imprese formidabili, filmando le pieghe dell’esistenza, trova un alleato inedito.
Aguirre, furore di Dio
Esce nel 1972 la prima collaborazione tra Herzog e Klaus Kinski. Un battesimo per tutte le soluzioni visive fino ad allora adottate da Herzog, che qui riannoda gli espedienti e le ricerche sull’immagine che lo avevano condotto a una prima elaborazione della sua poetica rivoluzionaria. Kinski è indomabile: siamo all’inizio delle riprese ma ha già piantato una spada nell’elmo di una comparsa, ha urlando contro la troupe perché il caffè servito in pausa era tiepido e non bollente.
Il suo volto è un’impalcatura complessa, ma Herzog sceglie di allontanarsi dagli uomini e riprendere per panorami, distante dai suoi protagonisti che marciano in fila tra immense vallate e montagne rocciose, seguendo sentieri dismessi, diventando minuscoli puntini in paesaggi infiniti, sotto cieli immensi e circondati da una natura violenta e sconosciuta.
Quel titanismo attizzato da ‘Segni di vita’ si arricchisce di un nuovo antieroe mosso dalla follia e da una brama così esasperata da essere condannata al fallimento, non dal fato ma da una certezza cosmica che non ammette benevolenze di fronte a slanci di ubris. E più ci si addentra nel nulla della spedizione, più l’esercito diventa fauna, più lo sguardo a cui le soggettive ci impongono sembra fondere lo spettatore con il personaggio, e il personaggio con la natura che lo circonda. Anche per questo, andando avanti nella visione, troveremo sempre meno al centro l’uomo, che parla fuoricampo, e sempre più al centro la natura.
Un discorso in salita dall’essere umano all’universalità dell’ambiente che lo circonda, come accadeva nell’ascensione iniziale del ‘Picnic a Hanging Rock’ di Peter Weir. Il finale non lascia aperte molte interpretazioni: con un movimento quasi impossibile, la camera da presa ruota attorno a una zattera, la natura che all’inizio sembra dovesse divorare i nostri protagonisti ha infine avuto la meglio, regnando sola sulla scena. Al punto di vista classico del cinema sopraggiunge un’estasi dello sguardo, permeato dalla natura che immobile pietrifica l’azione umana.
Le riprese di Aguirre furono, come si diceva, sfiancanti per Werner Herzog. Justo Gonzales ricorda quell’episodio, prima citato, in cui Kinski si scagliò contro il suo elmetto da comparsa con una spada, forando l’elmo e scavando un taglio netto sulla testa. È sempre Gonzales che parla: “Kinski odiava tutti, era impulsivo. Una volta noi comparse stavamo giocando a carte durante una pausa dalle riprese, dentro una capanna. Kinski divenne improvvisamente furioso, aggressivo. Voleva dimostrare di essere un duro, il più forte, così prese un fucile e sparò tre colpi dentro la nostra capanna. Uno di noi rimase ferito, gli era saltata una falange e perdeva così tanto sangue che temevo fosse stato colpito altrove.”
Ognuno per sé e Dio contro tutti
Dopo questa esperienza Herzog decide di prendere una breve pausa. Essendo un personaggio imprevedibile e portato naturalmente alla sfida, è in questo periodo di sosta che Herzog intraprende un viaggio a piedi da Parigi a Monaco, che avevamo brevemente raccontato nell’episodio precedente.
Due anni dopo arriva ‘L’enigma di Kaspar Hauser’. Rimaniamo però fedeli all’originale titolo tedesco: “Jeder fur sich und Gott gegen”, che significa “Ognuno per sé e Dio contro tutti”. La storia è quella realmente accaduta di Kaspar Hauser, un personaggio perennemente avvolto nel mistero: compare come uno spetto a Norimberga, nei primi anni dell’Ottocento.
Tutto ciò che sappiamo lo evinciamo da caratteristiche fisiche e comportamentali: vittima di un annullamento quasi totale del linguaggio, con lievi malformazioni fisiche e una lettera indirizzata – così pare – al capitano della cavalleria. A rivestirne i panni, non Kinski – dal quale è comprensibile che Herzog volesse prendere una pausa – ma Bruno S. Viene notato da Herzog in un documentario sui musicisti da strada, tornerà a collaborare con il regista tedesco per ‘La ballata di Stroszek’. Ciò che interessa a Herzog è soprattutto il trascorso del suo nuovo attore: vanta infatti un lungo iter personale tra carceri e ricoveri in manicomio.
Il risultato è una pellicola che sembra non avere né capo né coda, le cui sezioni sono montate senza raccordi, come se ogni sequenza fosse un quadretto distaccato dagli altri, riversando nel linguaggio filmico la crisi del linguaggio umano che torna ad affascinare Herzog dopo i lavori giovanili. Non ci sono costrutti morali, come non ne conosce il protagonista: guardiamo la realtà quotidiana con la curiosità selvaggia di un alieno, che ha appena aperto gli occhi sul mondo e del quale viviamo un caos che sembra parlare quasi con tutti e cinque i sensi, che riprende più di qualcosa dall’impetuosa osservazione dell’Herzog adolescente, che studiava il mondo tattile dei non vedenti e l’incomunicabilità di mondi diversi.
Tra questi due mondi che ci si parano difronte – uno ordinario, quotidiano, fattuale, statico, e uno dinamico, bizzarro, autentico, primordiale –, il protagonista rimane compresso: è il destino che toccherà, nella miglior tradizione herzoghiana, anche al giovane Kaspar, il primo non-titano. Ogni inquadratura, ogni attimo della vita di Kaspar Hauser è come una freccia del martirio di San Sebastiano, costituisce una pena che Herzog sottolinea senza enfasi, come la breve parabola di un gioco in cui le regole dettate non sono mai sufficienti affinché il protagonista possa accettarvi di partecipare, perché incomprensibili seppur ordinarie, o per questa stessa ragione.
Cuore di Vetro
Partendo da un racconto di Herbert Achternbusch, nel 1976 Herzog gira ‘Cuore di vetro’, dove un villaggio bavarese del 1700 basa interamente la sua economia sulla produzione del rubino, un particolarissimo vetro il cui segreto sulla lavorazione è gelosamente custodito dal mugnaio. Alla morte di quest’ultimo, entra in crisi l’intero sistema economico e culturale della comunità – vera protagonista dell’intera storia. Herzog dirige un film intriso da un costante, autentico sentimento di morte e disperazione, un lungo dipinto diffuso, in movimento, dove aleggia perenne un’idea di soffocamento, di fine imminente.
Ma è anche la prima – e unica, probabilmente – pellicola interpretata da attori non professionisti ipnotizzati. Herzog avrebbe voluto – ma non gli fu possibile – comparire all’inizio del film per ipnotizzare gli spettatori, rendendoli partecipi diretti della disavventura esistenziale dei protagonisti. Questo anche a sostegno della tesi, che ci sembra più attendibile, secondo la quale il film non sarebbe una critica al sistema economico: in questo senso, la tecnica dell’ipnosi non sarebbe altro che un espediente, uno dei numerosi, infiniti esperimenti registici di Herzog, come ne ritroveremo a centinaia da qui in avanti – perfino in pellicole minori e commerciali. Fu questo il film con cui Truffaut si innamorò di Herzog, nominandolo come miglior regista vivente dell’epoca.
La ballata di Stroszek
‘La ballata di Stroszek’ esce nel 1977. Herzog scrive il copione in tre giorni, inizia la stesura mentre viaggia in treno e fa tutto in favore di Bruno S. che aveva lungamente insistito per tornare a lavorare con Herzog, staccando momentaneamente dall’acciaieria dove faceva l’operaio.
Il film, infatti, non era nei programmi di Herzog, che stava lavorando a Woyzeck, e dopo aver promesso la parte a Bruno S. decise di sostituire questi con Kinski. Bruno S. venne avvisato della decisione ma disse di aver già chiesto un periodo di ferie dal lavoro per partecipare al film, così Herzog ne scrisse uno all’ultimo minuto. Ancora una volta, il regista bavarese si avvale di attori non professionisti, tranne quella Eva Mattes dalla quale avrà la seconda figlia, Hanna.
È questo uno dei film più deboli di Herzog, sebbene non manchi lo slancio creativo e qualche interessante trovata, soprattutto nelle sequenze finali. Tuttavia, ‘La ballata di Stroszek’ è una reiterazione di temi già affrontati, di scene già viste, di idee già messe su carta dallo stesso Herzog – quelle dell’uomo diverso e della sua sfida fallimentare contro una società che lo rifiuta e lo deride – e che qui trovano una forma più debole e sterile, anche nel ritmo che fatica a tenere sveglio lo spettatore e nella mancanza di scene madri degne di nota. Sembra che Ian Curtis – frontman dei Joy Division – abbia visto questo film prima di suicidarsi.
Nosferatu, il principe della notte
‘Nosferatu, il principe della notte’ esce nel 1978 e segna il ritorno della collaborazione tra Herzog e Kinski. È forse il film più importante della carriera di Herzog, che sfida – per così dire – l’indimenticabile “Nosferatu, eine symphonie des grauens” di Murnau del 1922, ma lasciando da parte ogni derivazione dall’opera originale e componendo un film unico, inimitabile, un’isola nel cinema europeo di quegli anni e uno vero spartiacque per l’industria cinematografica tedesca – e per la sua carriera.
Sin dall’inizio, quando Herzog sceglie di riprendere dei veri cadaveri – conservati al Museo de las Momias in Messico – l’intenzione è dichiaratamente quella di voler far respirare allo spettatore un’aria lugubre, opprimente, che congela le immagini e il tempo e procede a passi lentissimi come la cinepresa che indugia sui particolari e rende davvero – pur contro la poetica herzoghiana – i volti dei personaggi paesaggi autentici, comprimari dell’atmosfera algida, tesa fino all’ultimo secondo.
La storia è semplice, e ben nota: Jonathan Harker è un agente immobiliare, sposato con Lucy. Si reca in Transilvania per concludere una transazione immobiliare con il conte Dracula, pur conscio dei moniti lanciati dagli abitanti circostanti a proposito del castello e della figura del conte. Un viaggio onirico in cui la natura è aspra e buia, e il peso del tempo si infrange dapprima sull’ambiente e poi sul volto scomposto di Kinski, qui al suo massimo livello.
Herzog sfida Murnau? Sarebbe ingenuo parlare di un duello tra due straordinarie menti del cinema tedesco del Novecento, peraltro operanti in periodi storici completamente diversi. Quello di Herzog non è infatti un remake, come siamo abituati a vederne oggi. Non nasce per aggiornare il codice linguistico del film di Murnau né per sfidare la messa in scena del maestro dell’espressionismo.
Certamente, abbiamo sottolineato la presenza dell’atmosfera onirica, il potere del sovrannaturale, il gusto squisitamente gotico nell’imbastimento delle ambientazioni, che è proprio di entrambi mi film, perché entrambi eredi di una tradizione letteraria dalla quale prendono a piene mani – quella gotico-romantica ottocentesca.
L’adattamento di Herzog include inoltre elementi della storia originale semplicemente impossibili da adattare per il cinema all’epoca di Murnau – soprattutto le scelte visive che Herzog adotta all’inizio, durante l’introduzione in Transilvania. Ma è nello spirito delle due pellicole che avvertiamo una differenza sostanziale: il Nosferatu di Murnau è un horror a tutti gli effetti, e del genere traccia le linee guida insieme a pochi altri film di quegli anni, tutti della tradizione tedesca; il Nosferatu di Herzog lascia che l’orrore scivoli dalla superficie a ruolo comprimario, diventando il mero pretesto per sfibrare la tensione e sfilacciarne il tessuto, regalando allo spettatore un prisma di declinazioni emotive dall’erotismo al terrore, dal fascino all’ambiguo rapporto tra tutti i personaggi in scena, muovendosi in scena come anime inconsistenti, ombre senza corpi, un’allucinazione onirica nella quale – ancora una volta, con Herzog – anche lo spettatore è chiamato ad essere coinvolto direttamente.
Tutta l’azione che Murnau costruisce sapientemente in un’esasperata climax ascendente, in Herzog si infrange: al dinamismo dell’orrore tradizionale, Herzog preferisce la costruzione di un poema romantico per quadretti, alimentato dalla tensione verso un Sublime irraggiungibile.
Woyzeck
Tre giorni dopo la fine delle riprese del ‘Nosferatu’, Herzog e Kinski tornano subito a lavoro con ‘Woyzeck’, adattamento del testo teatrale di Georg Büchner. La trama, anche qui, è semplice: Franz Woyzeck è un soldato costantemente vessato dai suoi superiori, deriso e tradito dalla moglie. Un uomo stravolto dagli eventi e già in partenza piccolo rispetto al superiorità – reale o apparente – del mondo che lo vessa e lo circonda. Non un titano, ma un personaggio piccolo, una maschera lacerata dalle incessanti violenze della società in cui vive. In questo senso, Herzog raggiunge per la prima volta nella sua carriera, la più profonda dimensione dell’animo umano: “C’è bel tempo signor capitano. Vede, un cielo così bello, fisso, grigio. Verrebbe voglia di piantarci un chiodo e impiccarcisi”.
Il tentativo herzoghiano è in realtà un altro dei suoi esperimenti: a interpretare la parte è un Kinksi completamente fuori forma, stanco, provato dalle riprese ancora fresche del Nosferatu. E quindi, inutile dirlo, perfetto per la parte. Il personaggio di Kinski è esattamente Kinski, come ci viene raccontato nel documentario a lui dedicato: un uomo imprevedibile, schiacciato da un’energia misteriosa e manovrato da fili invisibili. È l’uomo che si sente chiuso, compresso in un mondo troppo piccolo, troppo malvagio, troppo rumoroso, troppo incomprensibili, ma capace anche di manifestare una dosa inaspettata di follia e, tirando le somme, una miccia pronta ad esplodere da un momento all’altro.
Non c’è molto altro da dire sul film, che non è certamente una delle opere più notevoli del regista tedesco, ma che vive certamente di alcuni fondamentali colpi di genio, e che per Herzog rappresenta soprattutto una sfida con se stesso: lo girerà e monterà nel giro di appena due settimane, affermando: “Così andrebbero fatti tutti i film!“.
Fitzcarraldo
Madre di tutte le conquiste fisiche e spirituali della storia del cinema moderno, Fitzcarraldo è un film-monumento che non lascia spazio a critiche o appunti scettici su nessuna delle sue componenti tecniche e contenutistiche. Un’allucinazione che Herzog riprenderà da un fatto realmente accaduto, una nave portata sulla cima di una montagna, e poi fatta riscendere dal versante opposto, e che deciderà di ripetere – come farsa, come diceva un detto –, affidando il sogno impossibile al protagonista Brian Sweeny Fitzgerrald, detto Fitzcarraldo, uomo folle e sognatore perenne, conquistatore ‘di cose inutili’: il suo obiettivo è costruire un teatro dell’opera nel cuore della giungla amazzonica.
Un miraggio impossibile da raggiungere, un film impossibile da realizzare e spesso ostico per lo spettatore – molte sequenze mettono a dura prova la pazienza dello spettatore, specialmente nelle fasi centrali, quando la nave sale la montagna, ripresa con una camera fissa, distante. D’altro canto, sono davvero troppi i momenti fondamentali che andrebbero citati per celebrare degnamente l’onore dell’opera: un grammofono che rompe il silenzio del viaggio con della musica lirica – unico elemento aggiunto in post produzione da Herzog –, il rovesciamento del battello durante l’attraversamento delle rapide, il trionfo finale.
La splendida Claudia Cardinale, che nel film è la giovane moglie di Fitzcarraldo, ricorderà così l’esperienza sul set e il rapporto con Klaus Kinski: “Quando ottenni la parte per il film, tutti mi dissero ‘Mio dio, lavorerai con Kinski! È impossibile lavorare con lui’. Con me invece fu molto garbato, dolce. Mi scriveva perfino dei bigliettini e non mi ha mai trattata in maniera scortese.”
L’alchimia tra Herzog e Kinski trova una definizione superiore, più pura. Sono due uomini fisici, amano la sfida, la terra, il contatto diretto con il mondo in cui devono immergersi, sprezzano il pericolo e hanno accettato da tempo e di buon grado l’idea di morire purché il film si realizzi. Quando il battello si rovescia per la prima volta, durante le prove per la navigazione, la quasi totalità della troupe abbandona il set. Rimangono pochi uomini, fedeli, e Kinski: “Probabilmente moriremo. Nel caso, moriremo insieme”.
Suggerisco con tutto il cuore di recuperare quelle bellissime immagini inedite, sul finire di ‘Kinski, il mio nemico più caro”, per assistere a una delle scene più belle dell’isteria fraterna che dominava il rapporto tra Herzog e Kinski, quando questi improvvisa lasciandosi trasportare dall’adrenalina, mentre il battello sembra stia per affondare, Herzog lo ferma per dirgli che avrebbe potuto partire un po’ prima, e Kinski impazzisce.
Fitzcarraldo è anche il film con cui Herzog vince il suo primo premio importante, quello per la Miglior Regia al festival di Cannes. Non tutto però, va sempre per il meglio, o per dirla alla Aldo Raine: “Se una storia è troppo bella per essere vera, non è vera.”
Dove sognano le formiche verdi
L’impresa di ‘Fitzcarraldo’ porta a Herzog il riconoscimento internazionale e l’interesse di un pubblico più vasto, ma anche problemi con i finanziatori dei suoi film, impauriti dai costi delle produzioni herzoghiane e dagli imprevisti sul set, costanti e spesso molto pericolosi – come quando un operatore di Herzog venne morso da un cobra velenoso al piede, e Herzog gli suggerì di tagliarsi il piede con una sciabola prima che il veleno arrivasse al resto del corpo.
Il film successivo è quindi ‘Dove sognano le formiche verdi’, una pellicola semi-sconosciuta nella sconfinata filmografia del regista bavarese, ma non per questo meno interessante. Anzi, a fronte di molti titoli apprezzati di Herzog che spesso meriterebbero meno attenzione del dovuto – ne parleremo meglio nell’ultima parte di questa monografia –, ‘Dove sognano le formiche verdi’ è un film interessante, divinamente scritto e con alcune delle scelte visive più belle del cinema di Herzog, soprattutto nelle sequenze iniziali, quando assistiamo alle infinite distese del deserto bianco, dal quale lentamente emergono le piattaforme, le miniere, gli operai a lavoro.
Il film è infatti una parabola ecologista, che spesso cade nella verbosità per far emergere le contraddizioni tra un popolo indigeno, legato al territorio e abituato a ‘sentire’ la natura circostante, a proteggerla, ad amarla capendo il rischio della sua devastazione, e la civiltà consumistica – occidentale e non – abituata a distruggere per creare artificialmente, ponendosi ‘quesiti inutili’ e fregiandosi di risultati, meriti, conquiste effimere di fronte alla complessità della natura.
Certamente una pellicola meno coraggiosa, meno interessante dal punto di vista aneddotico e dalla realizzazione più semplice, è chiaro. Ma vale la pena ricordarne l’esistenza, perché se ne riscopra la bellezza, pur nella sua inaspettata semplicità.
Cobra Verde
Meno coraggiosa, a dire la verità, è anche l’ultima delle cinque collaborazioni tra Werner Herzog e Klaus Kinski, che nel 1987 lavorano insieme in ‘Cobra Verde’, prima di dirsi addio. La storia è gentilmente offerta da “Il vicerè di Ouidah” di Bruce Chatwin, un po’ picaresca, un po’ sentimentale, un po’ filosofica. Kinski è nel ruolo, almeno fino a un certo punto del film.
Nel 1988 uscirà la sua prima regia, ‘Kinki’s Paganini’, interpretato sempre da lui, e sul set di ‘Cobra verde’ è quindi una “fantasmatica presenza”, come ebbe da dire lo stesso Herzog. Una appena accennata costruzione dei personaggi, un intreccio che fatica a risultare comprensibile, complice un montaggio spezzato, che rende il film frammentato costantemente e senza coesione tra le varie sequenze. Ma è anche una metafora – “Non so bene di cosa”, come diceva Herzog a proposito di Fitzcarraldo – involontaria, probabilmente, della fine di questa fase artistica nel cinema del grandioso regista di Monaco.
Lì dove Fitzcarraldo, appena qualche anno prima, sollevava sulle proprie spalle una nave, portandola dall’altro lato del monte, superando indigeni e insidie naturali, il Kinski di ‘Cobra Verde’ non riesce neppure a spingere una barca dal bagnasciuga all’acqua, contorcendosi per la disperazione, rotolandosi, gettandosi nel mare gelido, gridando al cielo, maledicendosi.
“Kinski era completamente impazzito” – raccontò Herzog a proposito del film – “si era lasciato troppo prendere dal suo ‘Paganini’ e aveva portato un clima sgradevole nel film. Non ho più voluto lavorare con lui. Le nostre strade si sono sperate. Si era buttato via, era come se si fosse consumato. A volte, vorrei mettergli ancora un braccio sulla spalla, ma soltanto perché in alcuni vecchi filmati vedo quando eravamo insieme: scherziamo, ridiamo, siamo amici, come se lo fossimo sempre stati. Eravamo insperabili, pronti ad affondare insieme. Il mondo è nostro ma sembra che Klaus voglia volare via. Non avrei dovuto accorgermi che era la sua anima a voler andarsene? E poi lo vedo con una farfalla che gli vola attorno, soave e leggerissima. Tutto ciò che tra noi pesava scompare, tutto diventa bello.”