Cadaver, horror Netflix tra realtà e rappresentazione
È una produzione Netflix Norvegia il nuovo horror dell’omonima piattaforma streaming, “Cadaver”. Diretto da Jarand Herdal – Everywhen (2013) – e interpretato da Gitte Witt, Thomas Gullestad e Thorbjorn Harr, il film segue le vicende di una famiglia – madre, padre e figlioletta – alle prese con una rappresentazione teatrale in stile Grand Guignol, all’interno di un grande albergo che sorge sulle cenere di una città colpita – non sappiamo quando, non sappiamo perché – da una bomba atomica e ridotta a poche macerie.
Una breve premessa, che ci presenta il quadro devastante di pochi cittadini costretti a convivere con la miseria e a patire la fame, ma è quanto basta per dare il via alle danze: il proprietario dell’albergo – affascinante biondino, che ricorda vagamente uno slavato Tim Roth – invita gli spettatori a consumare un ricco pasto a base di carne, e poi a godersi lo spettacolo, che si muove non su un palco ma lungo tutte le stanze e tutti i corridoi del gigantesco albergo.
Agli spettatori in sala la scelta su chi seguire, dove muoversi, e quanto credere a ciò che sta avvenendo in scena. In pratica, una cena con delitto alla maniera dello ‘Sleep no more’ newyorkese, con i teatranti che vagano stanza per stanza, portando in scena tante declinazioni della stessa opera, e tante piccole sotto-trame, in un tentativo di ricostruzione del Macbeth shakespeariano.
Le ciliegine sono due: un’antica maschera dorata che gli spettatori dovranno indossare, per distinguersi dagli attori; un cambio di luci, colori, atmosfere drastico quanto accattivante, dal mondo post-apocalisse al lusso e alla dimensione apertamente ludica, effervescente del grande albergo-teatro.
L’uso delle maschere, le inquadrature fisse sui corridoi lunghi, simmetrici, e i precisi riferimenti a stanze in cui non entrare e un uso sgargiante del rosso sono soltanto alcuni dei riferimenti al cinema di Kubrick. Ma è nella sostanza che il film dimostra di avere ben altri antenati cinematografici: uno su tutti, la lunga tradizione hitchcockiana che ci ha messo di fronte a stanze segrete, ambientazioni sospese nel tempo e rotture costanti del cielo di carta. Ma anche i recenti ‘Il Buco’ e ‘Cannibal Club’ hanno sicuramente avuto da dire la loro nella scrittura del film.
Ricchi contro poveri, affamati contro sazi. Per fortuna questa retorica da convegno sindacale finisce presto, o meglio scompare tra le righe del discorso, un po’ perché capiremo che non ha alcuna forza nella trama del film, un po’ perché subentra la violenza e manda tutto in caciara. Ci sono sacrifici umani e piccoli indizi lasciati qua e là tra le stanze del luminoso albergo, ma anche personaggi misteriosi e sparizioni improvvise.
Tutto a condire una storia che non riesce mai a tenere davvero teso lo spettatore, piuttosto distaccato dagli eventi perché mai sviluppati con la dovuta attenzione. Il film di Herdal è un minestrone di cliché, ben inseriti ma che alla lunga risultano indigesti, dai risultati prevedibili e quindi noiosi, per non dire sconcertanti verso il finale, che è un trionfo di banalità e vuota retorica.
Per di più, di fronte a quello che dovrebbe essere l’exploit di violenza – molto chiacchierato nel film, te lo fanno annusare fino all’ultimo –, c’è da mettersi le mani trai capelli per la pochezza delle scene estreme che il film ha da offrire: angoscianti per chi non ha mai visto un’opera gore, o un banalissimo splatter anni ’70. Per tutti gli altri, un episodio di Un posto al sole.