Non è tutto horror ciò che luccica: The death of Dick Long
Articolo di Davide Predosin
Vista l’occasione, ovvero questo speciale di Halloween di The Walk of Fame, avrei voluto soffermarmi su alcuni horror contemporanei che non mi sono affatto piaciuti e che vengono spesso portati in palmo di mano da molti cultori del genere.
Sarei stato tentato di sollevare alcune polemiche su una certa maniera seriosa e furbetta usata ultimamente per cercare di terrorizzare il pubblico, ma forse il problema è mio: sono io a non aver più voglia di spaventarmi gratuitamente come in una specie di circo di turpitudini disturbanti. Se devo infatti assistere a pratiche rituali perverse e pseudo-sataniste voglio che ci sia sufficiente gusto per il grottesco come in Rosemary’s Baby o in Wicker-man del ’73.
Oppure mi piacerebbe che si riprendesse una certa tradizione horror prettamente anni ’80, (Sam Raimi, Carpenter, Joe Dante, Cronemberg) che si riconosceva come cinema di intrattenimento ma non disdegnava, dietro il divertimento, di essere anche specchio critico della società dell’epoca; cosa che mi sembra sia riuscito a fare ultimamente Jordan Peel in Get Out- Scappa e anche in Us o Jennifer Kent in Babadook.
C’è ancora una buona dose di senso dell’umorismo in questi film, cosa che mi sembra mancare in altri blasonati giovani registi di oggi che hanno sicuramente elaborato uno stile registico elegante e personale; hanno un gusto fotografico che cattura esteticamente lo spettatore ma, a mio parere, nascondono in questo modo la pochezza e convenzionalità dei loro soggetti. D’altronde non penso di essere nemmeno un esperto del genere e può essere che mi sfugga qualcosa, quindi ho deciso di suggerire un film che non è nemmeno un horror ma che, devo dire, a suo modo un po’ di paura la fa.
Prodotto dalla A24 del più celebre Midsommar, The Death of Dick Long è del 2019 e difficilmente verrà distribuito in Italia
Per quanto divertente, quantomeno per chi ama grottesco, black humor, ma soprattutto cringe comedy (letteralmente commedia imbarazzante), The death of Dick Long mette in scena una situazione così inimmaginabile e border-line che sfido qualsiasi distributore italiano a rischiare di farne un’edizione italiana. Se mai succedesse, ovviamente, non dovrebbe essere un’edizione doppiata: si tratta di un film ambientato in Alabama i cui protagonisti sono degli autentici bifolchi rednecks, nati e cresciuti in una provincia dove, per noia, si finisce per fare qualsiasi cosa e dove, soprattutto, si parla come nei libri di Erskine Caldwell.
Nonostante difetti, imperfezioni e sbavature The Death of Dick Long rimane uno dei film indipendenti più spassosi e originali visti quest’anno durante il lockdown
Sarà che ho sempre più bisogno di sviluppi drammatici plausibili, anche e soprattutto quando scaturiscono da premesse improbabili, e sono sempre più insofferente davanti ai trastulli cinematografici di autori che non sanno cosa raccontare e, in questo caso, il soggetto e il suo sviluppo sono umanamente e narrativamente molto intriganti.
Il regista del film è Daniel Scheinert, uno dei due Daniels autori di Swiss Army Man, un’altra dark comedy in cui, nonostante elementi macabri, paradossali e, volendo, a tratti, irresistibilmente triviali, è in grado di raccontare, attraverso una relazione psicotica tra un naufrago e un cadavere, temi come alienazione, disagio e solitudine; cose che andrebbero affrontate nelle scuole e invece sono spesso rappresentate meglio in film minori che difficilmente potrebbero essere inseriti in programmi di istruzione ministeriali.
Di certo un insegnante non potrebbe far vedere The Death of Dick Long ai propri studenti; benché si tratti di un film piuttosto intelligente, con ottimi dialoghi e attori in grado di interpretare in maniera convincente l’impaccio, l’imbarazzo, la goffaggine irresponsabile di due amici che, dopo una notte di baldoria, cercano di nascondere qualcosa di difficilmente perdonabile.
Il film si sviluppa in maniera ellittica e per un po’ brancoliamo nel buio assieme a una ufficiale di polizia, degna erede della più celebre investigatrice di Fargo dei fratelli Cohen.
Forse il riferimento più prossimo al film di Daniel Scheinert, se non fosse che qui viene estremizzata l’inadeguatezza e la stupidità di quelli che in Dick Long più che criminali, sono autentiche incarnazioni della banalità del male della provincia; o, se vogliamo, di patetica, candida e insulsa idiozia.
Nel film, la famiglia e la comunità in genere, è rappresentata come un fragilissimo organismo in cui vicini e coniugi non sanno quasi nulla l’uno dell’altro; un marito è rimasto un adolescente così irresponsabile e sprovveduto da attraversare tragedia e ridicolo rimanendone quasi indenne, ovvero uscendone comicamente come ne è entrato: un bifolco come tanti a cui possiamo riconoscere al massimo un autentico affetto per la figlia ma che ci fa rabbrividire, e ridere, quando tenta di riavvicinarsi alla moglie; vera vittima, martire ed eroina… se di eroi e martiri nel film si può parlare.
Non posso anticipare nient’altro, e mi dispiace perché muoio dalla voglia di spifferare qualcosa ma rovinerei un’autentica chicca del cinema indipendente americano contemporaneo. Ripeterò solo che dopo una festa due amici portano un terzo amico gravemente ferito all’ospedale ma, per paura di confessare cosa hanno fatto, lo abbandonano sanguinante e moribondo davanti al pronto soccorso e, ovviamente, questo non vivrà abbastanza per poter raccontare la propria versione dei fatti.
Un film di serie B, vista la spesa contenuta e le scarse pretese e possibilità di botteghino.
Una piccola, pregevole produzione che sa far funzionare perfettamente il meccanismo cosa succederebbe se ed è in grado di suscitare nello spettatore una buona dose di suspense imbarazzata; paragonabile a livello adrenalinico alla suspense orrorifica; basate entrambe sulla stesso contraddittorio meccanismo psicologico o tacita invocazione: oh mio dio non voglio vedere cosa sta per succedere/devo vedere cosa sta per succedere.
Un thriller per finta, uno scabroso noir con risvolti comici, che, come Swiss Army man sa far stare in piedi un soggetto sulla carta irrealizzabile ed è in grado di bilanciare con humour una storia tragica a cui non possiamo assistere senza ridere e rabbrividire.
Come diceva Tommaso Landolfi “non si fa letteratura con la letteratura” e così non necessariamente si fa horror con l’horror e the Death of Dick Long è un degno esempio di come si possa ingenerare orrore senza necessariamente ricorrere a entità paranormali o a psicopatici assassini ma limitandosi a visitare una piccola cittadina dell’Alabama dove la gente si diverte come può.
Mi limito quindi a suggerire questo film minore, che ci mette davanti a una circostanza socialmente spaventosa, forse metafora più o meno scoperta di quanta sofferenza possa procurare la perversione del desiderio represso, in una società bigotta, moralista e ipocrita.